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COLAZIONE DA TIFFANY

 

Dal romanzo di Truman Capote "Breakfast at Tiffany's", Regia di Blake Edwards, con Audrey Hepburn e George Peppard, musiche di Henry Mancini


 

Di Corrado Barbieri





La più bella commedia di ogni tempo nella storia del cinema, una protagonista inarrivabile come classe, lievità, fascino, non possono richiedere aggiunte. Si pos- sono solo riprendere, per goderne di nuovo l'effetto, le pennellate che qui e là danno vita a sensazioni che possono sfuggire a una visione superficiale, ma che sono anch'esse perni attorno a cui ruotano immagini e vicenda.

Che dire della musica che, fin dalla sigla iniziale incerniera tutta la storia? Della prima scena che vede la New York semi-deserta dell'alba, con un' inquadratura ardita degli edifici, e Audrey in vestito lungo nero e occhiali neri? E della scena che vede eseguire per intero il brano "Moon River" (vedi in sezione Musica) da lei, seduta sul bordo di una finestra, in abiti casual, con una qualsiasi voce, al punto che nessuno, nemmeno The Voice, riuscirà a confezionarcene una versione così straordinaria e indimenticabile? E, a metà film, della inquadratura dal basso dei grattacieli di New York, con lei che dice “tra anni e anni, tanti anni, noi e i nostri figli torneremo qui...”?

Come proiettare nel sempre una storia, di un qualcuno di noi, di un qualunque amore, che è sempre un qualunque speciale, come tutti gli amori e come quello del film. C'è il ruolo del gatto, tassello tenero ed imprescindibile, ma anche significato recondito del binomio solitudine/abbandono.
E l'arte raggiunge i suoi picchi, le sue punte sensitive, facendoci pungere per sempre dal desiderio di rivivere la storia, sempre come fosse la nostra.

 

Lettera a George Peppard

Paul Varjak, Fred per Holly… appunto in "Colazione da Tiffany", con una caratteristica lampante che si può riassumere in una parola: pulito. Nel senso più ampio dell’accezione. E immagino tutte le raccomandazioni che ricevesti da Blake Edwards, e anche che la presenza, pur non fisica, di Capote ti abbia messo a dura prova. Ma quella caratteristica, che è poi è anche lievità, fascino palese e al contempo nascosto, non avrebbero potuto in ogni caso dartela. Seppero scegliere bene, te.

Se poi mi dici che recitare accanto all’unica, inimitabile, eterna Audrey, ti fu di grande sprone, ti credo. E insieme deste vita a un’opera d’arte assoluta. E alla faccia di tutti gli “intellettuali” di questo mondo, ripeto, senza stancarmi mai, che lo scopo dell’arte è dare sensazioni, il resto conta pochissimo.

Ma eccoti al polo opposto, “stronzo”, vero, credibile, ne "L’uomo che non sapeva amare". Gelido, venale, urticante, fastidioso come le pulci come dicono di te nel film. Jonas Cord, squalo dell’industria aeronautica e cinematografica ottenuto mixando la storia di due personaggi realmente vissuti. Ma con il tuo segreto. Alla fine però le buscasti alla grande, fisicamente! Pur sapendo di avere torto. Te le diede Nevada, cioè Alan Ladd, al suo ultimo film, e capisti.

Un film dal ritmo straordinario, che tu cavalcasti con grande credibilità, trasmettendo allo spettatore più sensibile e attento proprio quella febbre di intraprendere, di creare, di buttarsi fuori rischiando.

Poi di nuovo pulito, anzi dolcissimo e sofferente interiormente, in "A casa dopo l’uragano", un film dove la nota piacevole eri solo tu, perché tra bigotterie dell’America anni ‘50 e cattive interpretazioni dei pur grossi calibri di Hollywood, Mitchum compreso, viene voglia di tagliare prima della fine.

Credo che l’icona più bella di tutta la storia del cinema sia la scena, diventata poster, conosciuta da tutti e ripetuta ovunque vi sia da simboleggiare il romanticismo, che ti vede baciare Holly, con il gatto in mezzo.

 



 


 

 

 
   
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