Tutta la produzione di Edvard Munch (1863-1944) sembra un'incessante e appassionata indagine sul destino umano e sul mistero di vita e di morte che ne regola il corso. La sua arte denuda, smaschera, svela, in linea con le violente tensioni di fine Ottocento; le sue opere mettono in scena le forze oscure e inarrestabili che agiscono alla base dell'esistenza umana: Munch dipinge quella stessa anima che Sigmund Freud, negli stessi anni, stava indagando.
Nacque nel 1863 a Løten, ma crebbe a Christiania (antico nome di Oslo). Ben presto, abbandonò gli studi tecnici cui era stato indirizzato dal padre, medico dell'esercito, per dedicarsi alla pittura. Poté usufruire dell' insegnamento di grandi maestri che operavano nel solco della tradizione, come lo scultore Julius Middlethun, o più progressisti, come il pittore naturalista Christian Krohg e il paesaggista Fritz Thaulow, formatosi alla scuola di Barbizon e fondatore di una scuola en plein air alla maniera francese.
Negli anni Ottanta, Munch fu spesso a Parigi, grazie ad alcune borse di studio. Nella capitale, il giovane giunse imbevuto dei fermenti che animavano la comunità bohémienne di Christiania.
Là era legato a personaggi come lo scrittore anarchico Hans Jæger che, finito in prigione per la scabrosità della sua autobiografia, vi portò la Madonna di Munch.
Già aveva fatto presa su di lui l'idea di una matrice autobiografica ed emozionale dell'arte. Più volte scrisse che"l'arte è il sangue del cuore"; tale profonda convinzione segnò tutta la sua evoluzione artistica fin dalle prime opere, nelle quali il pittore evoca di continuo gli eventi luttuosi che avevano segnato la sua infanzia. Tuttavia, Munch trasfigurò il dato biografico in simbolo di esperienza universale. Molto presto, la sua attenzione si spostò dall'Impressionismo imperante all'esperienza dei Simbolisti, da cui aveva mutuato uno stile fatto di linearità egrandi campate di colore. Mentre gli Impressionisti rivoluzionavano la percezione del dato oggettivo, Munch venne attratto dall'idea di ripensarlo, attraverso la sovrapposizione totalizzante dell'Io: fu uno dei primi passi verso l'Espressionismo, il movimento che riconobbe l'artista norvegese come mentore e padre. Non è un caso se un posto di rilievo, nel corpus munchiano, è occupato dagli autoritratti, che acquisiranno nuova linfa grazie all'utilizzo della fotografia.
In Autoritratto sotto maschera di donna è netto il passaggio a una poetica più vicina al Simbolismo. Nel quadro, il pittore fissa un punto imprecisato al di là dello spettatore; è circondato da uno sfondo rosso e sovrastato da una testa di donna che, trasfigurata dal belletto, ricorda nelle forme una maschera tragica e nello sguardo, quasi di sfida, una Gorgone.
Di poco più tardo è Il grido, comunemente riconosciuto come uno dei manifesti profetici del secolo a venire.
Nella tela, Munch riprende gli stilemi delle sue opere contemporanee: i volti quasi ridotti a teschi della Sera sul viale Karl Johan o di Angoscia, la fuga obliqua della prospettiva, la solitudine del soggetto in Disperazione.
Ne Il grido, tutto ciò viene travolto dalla dirompenza dell'Io.
L'uomo, anziché soggetto attivo, sembra piuttosto attraversato dall'urlo che esplode angoscioso, annientando i confini tra l'Io e la natura la quale, con le sue linee curve e avvolgenti, traccia direzioni impossibili e dimensioni coloristiche insostenibili. Il gesto infantile dell'uomo che si copre le orecchie è lo stesso che compie la ragazzina in La madre morta e la bambina (1897-99), in cui Munch aveva inscenato la morte della madre, o che compare nelle figure de La tempesta (1893). La figura in primo piano ne Il grido ci appare indifesa, piegata dall'impeto del nonsense universale.
L'opera, su cui lo stesso Munch scrisse a matita: "solo un pazzo poteva dipingerla", possiede la potenza sintetica del mito. L'autore amava raccontare come l'ispirazione del quadro fosse stata prodotta da un'esperienza di straniamento e vertigine realmente vissuta durante una passeggiata in compagnia di amici; al centro del suo interesse è sempre l'uomo, con la sequenza di dati biografici che ne compongono la vita.
La sua produzione manifesta un'infaticabile tensione archivistica dell'esperienza umana; la realizzazione, mai definitivamente compiuta, del grandioso Fregio della vita, esposto per la prima volta alla Berliner Secession del 1902, fu quasi una scoperta per Munch che rilevò come le sue opere fossero intimamente legate alla maniera di una sinfonia. Lo stesso intento compare in quella che avrebbe dovuto essere una raccolta strutturata di opere grafiche sull'amore. Ed è l'amore, come la morte, una delle esperienze fondanti della sua arte, i cui soggetti prediletti si rincorrono, definendosi e precisandosi, attraverso i quadri e le litografie. La donna si offre lasciva, come nelle conturbanti Madonne o come ne La Voce, o Le Mani; eppure è tutt'altro che oggetto di desiderio: piuttosto, evoca un richiamo irresistibile, il cui esito è la consunzione erotica e vitale. Caratteristica è la chioma femminile, quasi animata, che percorre lo spazio, lambisce, avvolge, ingloba l'uomo. L'esperienza sessuale, con la sua alternanza di estasi e abbandoni, attrazioni e separazioni, segna il destino di uomini e donne, conducendoli lentamente verso la morte. Nella Danza della Vita, il percorso tra le due figure laterali (la giovane aperta alla vita e l'anziana già da essa sfinita), è segnato dalla coppia che danza in primo piano.
Il fulcro della visione è la macchia rossa dell'abito della donna, quasi allusivo della pulsione erotica che, nella poetica munchiana, sembra l'unica possibilità d'incontro tra la vita e la morte: il sesso genera e uccide nello stesso momento. Anche la scoperta del sesso è dolorosa: la ragazzina di Pubertà, la cui unica difesa sono le mani piegate a nascondere il ventre, non ha nessun candore virginale, nessuna seduzione, solo un corpo scheletrico e indifeso tra un letto sfatto e l'ombra che campeggia, terribile come un monito, dietro di lei.
Oggi, l'arte di Munch risulta chiaramente intellegibile, ma ai suoi esordi, i contemporanei ne rimasero sconvolti. Nel 1892 la sua mostra presso il Verein Berliner Künstler venne chiusa in anticipo. La rottura era insanabile: nacque allora la Secessione Berlinese. Munch si trasferì a Berlino, dove si legò, tra gli altri, a Strindberg e Ibsen, inaugurando una nuova, intensa stagione bohémienne. Nello stesso anno riallestì la mostra, a proprie spese, con grande successo; lo scandalo l'aveva già reso noto. Ciò che giunge a noi, oggi, è una ricerca quasi commovente di senso. E' vero che di Munch si ricorda soprattutto l'anima nera, eppure potremmo leggere la sua volontà ossessiva nel raccontarci l'essere umano come un impeto vitalistico che trascina l'Io nella propria più grandiosa rappresentazione, superando la tentazione narcisistica con un'instancabile generosità affabulatoria.
L'atto creatore fu sempre un processo tormentato dalla ricerca, sfibrato dalla riscrittura. Nei primi anni del secolo, gli eccessi, la vicenda tormentata con Tulla Larsen, l'attività febbrile, lo condussero quasi in fin di vita. Nel 1909, reduce da una delle sue lunghe degenze in clinica psichiatrica, partecipò a un concorso per la decorazione dell'Aula Magna dell'Università di Oslo, per il quale scelse il tema della luce. Era un momento di rinascita: si sentiva pacificato e più sereno. Realizzò una serie di studi, il cui esito fu la realizzazione di un immenso pannello (quasi otto metri per quattro) raffigurante il sole come fonte primigenia di pura energia. Non vi compare alcun soggetto umano, ma vi si sente il suo sguardo, come se quella fonte assoluta di luce rappresentasse la massima aspirazione del pittore e dell'uomo.
Paradossalmente, la stessa esplosione di energia evoca, con una significativa inversione di segno, quella de Il grido di vent'anni prima. In quel periodo, Munch scelse l'isolamento, dapprima nella tenuta di Kragerø, poi in quella di Ekely, sempre nei pressi di Oslo. Furono anni di produzione febbrile e di successo. Viveva circondato dalle sue opere che lasciava all'aria aperta in balia di vento, sole e pioggia, quasi a voler imprimere loro una vita, un'evoluzione indipendente dalla mano creatrice. Finalmente, nel 1927, anche la sua patria, con cui aveva sempre intrattenuto rapporti difficili, gli dedicò una personale. I tormenti del passato appaiono lontani, ma non dimenticati: è del 1930 un appunto in cui definisce la morte come vera nascita, e in cui ancora si domanda: "Per cosa siamo nati?".
La morte invase nuovamente le sue opere; la malattia, la vecchiaia, la solitudine, lo ricondussero all'antica attrazione per le ombre. (1940-42) è uno dei suoi autoritratti più inquietanti e riusciti. Munch vi si rappresenta sulla soglia, eretto con la fissità di un cadavere, gli occhi quasi chiusi. Il letto e la pendola paiono costringerlo in una morsa dal disegno cruciforme; sulla parete, un nudo di donna ormai racchiuso in una cornice.
Nel 1940, i tedeschi invasero la Norvegia. Munch rifiutò ogni contatto con coloro che avevano bollato la sua come "arte degenerata", e si rifugiò negli Stati Uniti. Morì il 23 gennaio del 1944, lasciando un'eredità inestimabile alla città di Oslo; eppure, fu solo vent'anni più tardi che l'amministrazione gli dedicò un museo.