MALE DA SUDAMERICA
Di Duccio Castelli
Entrati in quella villetta, dall'angolo del giardinetto davanti alla strada, vedemmo - al di là del dolce parquet del salotto - un giardino. Con sopra, sul prato, un sole caldo.
Ci guardammo, sapendo che quella era la casa che avevamo cercato.
Stavamo a Santiago del Cile quando scoccò la mezzanotte della fine del 1999. Già sapevamo da poco che non sarebbe capitato nulla di strano, perchè, anche se non lo si era pensato prima, in realtà in televisione avevamo visto il capodanno in altre parti del mondo da varie ore.. anzi, in pratica mai ci fu "un momento" in cui il mondo avesse fatto capodanno, ma 24 ore continue! Il cambio del Millennio fu abbastanza affascinante anche per me che non amo i capodanni. Forse un privilegio, certo una data impagabile. Ma tutto terminò così, subito, e davanti avevamo soltanto altri mille anni diritti, da vivere, come sempre.
Prima di quel giorno Santiago era stata per noi quattro-famigli, una serie di appuntamenti con la vita, anomali, variegati, sarcastici. Una mezza vita spesa per "mille e nessuna ragione", in un paese lungo e stretto con dentro tutti i climi, i cambiamenti e tutti i sentimenti del mondo.
Una notte di qualche anno dopo, durante una vacanza nell'estate australe, mi inviarono la foto di Giulia appena nata, la mia prima nipote, figlia di mia figlia. Così lontana, era riuscita a fregarci con una nascita prematura di quel tanto che basta perchè non fossimo assieme. Col Cile, l'essere da una parte dell'oceano piuttosto che dall'altra, mi causò sempre - prima durante e dopo - dei sensi di angoscia. Una angoscia d'assenza che rendeva sempre più necessario il dono della ubiquità, freddamente inarrivabile. Passai otto anni in quel paese, ma non come una persona normale, no: la prima volta ci andai per vedere com'era. La seconda ci stetti tre anni. Poi stetti via per dieci anni. Poi ci andai per Natale e ci rimasi un bel po'. Passai ancora durante i successivi decenni vari periodi in cui accumulai altri anni, sommando settimane a mesi, e una volta, ancora per qualche anno (ora vorrei tornarci ..a salutare ancora gli amici che restano).
In passato esisteva - si dice - il "mal d'Africa"; io conosco il mal da Sudamerica..
Un giorno anzi una notte di vari anni dopo, col rumore di un treno merci che parte, tutto si mise a tremare anzi a muoversi con violenza: era un terremoto di grado 6,7 (Richter). Ripeto: 6,7! Uno di quelli... che quando capitano nel resto del mondo fanno spesso mille morti. Soprattutto non finiva più.. stavamo fermi nel letto, al primo piano e aspettavamo fiduciosi una prossima fermata ma niente.. sapevo bene come fossero buone le case antisismiche in quel poco noto paese ma, mi dicevo, non può certo resistere ad oltranza sbattendosi da tutte le parti; quando comincerà a fessurarsi una parete? A sgretolarsi il soffitto? Dissi: andiamo giù svelti camminando quattoni per non cascare dalle scale e tenendoci bene, ma subito! Scendiamo da basso, forza! Così facemmo; e continuava ad andare tutto a destra e a sinistra, i muri, le lampade spente, e c'era un cupo brontolio dalla terra mentre i cani nei giardini abbaiavano arrabbiati. I nostri cani e gatti erano terrorizzati. Andammo sotto l'arco in sala e ci mettemmo piatti a terra con le mani sulla testa. Mi sembrava una esercitazione finta. Ma continuava, a scuotersi tutto. Andò avanti quasi due minuti (d'orologio.. provate a vedere quanto durano), poi cessò e restò quel silenzio, rotto da cani ancora ululanti. "Carajo!" - dissi - con l'espressione internazionale sudamericana di stizza. Tutto era rimasto impeccabile, forse cadde un quadro. "Nada màs". Nel paese, grazie a Dio ed alle costruzioni, solo due morti (ma di infarto).
Un sabato invece, da un camion lungo e grande, scaricarono in giardino le vettovaglie, i tavoli imbanditi e i camerieri per servire il pranzo per tanti amici che altrimenti non avremmo avuto il tempo di incontrare durante le due settimane in cui saremmo quella volta rimasti lì. E tra i tavolini avevamo fatto lo spazio per improvvisare una jam session, anche con alcuni dei vecchi ragazzi della Retaguardia Jazz Band. A quegli inviti avebbero fatto seguito altri inviti nei nostri confronti, spesso da parte di altri jazzi (jazzmen forse) del mio giro. I vicini origliavano invidiosi (l'invidia regge il mondo e particolarmente quel paese). Così che si andò alle feste (gli asados, cioè le grigliate di carne con grandi insalate vini, birra e Coca-Cola) di Juan Carlos, con tanti bambini e un sole cocente, o di Enrique col laghetto accanto e un menù che andava dall'alba al tamonto, cioè carne e poi carne con carne. O di Abancens, argentino che - alla faccia della sua Argentina - cucinava male nel suo giardino in città ... suole di scarpe bruciate e salate
(... "carne dura, quemada y salada" - vox populi dei cileni.. che sempre si beccano con gli argentini). Oppure da Antonio (leader, ma vezzeggiato e un po' sfottuto con una "Madre Superiora" dalla sua R. Jazz Band).. dove graticolavano polli, pressati e arrostiti dalle braci, sull'oceano Pacifico (ottimi e croccanti e sempre .. sotto il sole cocente). Una certa estate non se ne potè più del sole cocente. Per quattro mesi ogni benedetta mattina spuntava imperterrita la nostra beneamata stella in mezzo al cielo sui monti riarsi, a scottarci dall'est fino all'ovest implacabile, sfrontata, insopportabile. E l'erba moriva ogni giorno, per centoventi giorni. "Por suerte" che le potenti Ande davano fragranti sorgenti a Santiago e che la notte portava sempre frescura da quei monti a seimila (metri). Così procedono i giorni da quelle parti, soprattutto al sabato.
A Natale spesso eravamo là, io mia moglie e i nostri figli ancora giovinetti e singoli, almeno per quei primi anni. Babbo Natale di buona memoria sembrava continuare a portarci i regali e certo, alla mattina del 25, si trovavano tutti i pacchetti e i paccotti attorno al bell'albero e al Presepe, e la porta di vetro era spalancata sul giardino con la piscina ed il solito, formidabile... sole. L'inverno è infatti una splendida estate, in America del Sud ! E dentro all'acqua ben calda di quella piscina piccola "sed apta mihi" l'oscuro ma leggendario jazzista Alfredo Espinoza mi raccontava i dettagli attorno alla vasta cicatrice che aveva nella pancia, aprendomi ad ipotetici e (forse) fantasiosi scenari da film giallo che mai ebbi il coraggio di trascrivere a chiare lettere. E ora a boccie ferme e a "tutti morti", ciò comunque non interesserebbe più a nessuno.
A volte ci trovavamo in quella casa con amici invitati da altri paesi e si andava ad Atacama, dove nel deserto l'oasi di San Pedro luccicava tra un verde trapunto di rocce, di gialli e di sale. Ed il sole naturalmente spaccava come in un western all'italiana. A curare gatti e cani di casa a Santiago, restava Jacinta, la sorella di Marcelo De Castro (il mio suonatore di "tavola da lavare" nel Barcelona Milan Washboard, band che vinse il Festival di Breda in Olanda nel 1996). E sull'altiplano delle Ande si arrivava in Bolivia, dove se ne fregavano se la tua jeep perdeva acqua mentre si avvicinava la notte ed eri a 5500 metri con un freddo letale notturno anche in estate, e ti dicevano di no, che non avevano niente per aiutarti, neppure acqua, chiudendoti la porta in faccia. La stella degli incoscienti ci aiutava in tali frangenti, meglio definita da mio padre come Angelo Custode ( era il suo riferimento, mentre il mio era ben più in alto). E questo Angelo ci aveva già protetto in tanti casi in famiglia, davvero molti. Grazie!
La gitarella più classica era invece l'andare all'Alto Las Condes (a due km dalla casa), dove moglie figlia e nipoti spesso amavano recarvisi per fare acquisti, per il cinema, la spesa per la tavola e così via, in uno di quegli enormi "Mall" che hanno uniformato il mondo civilizzato, così come tutti i cellulari e le asfissianti connessioni ed "App" elettroniche che impestano quasi ogni luogo umano da troppi decenni. Mentre l'alberello di banano che mia moglie mi regalò un giorno che compii gli anni non volle mai attecchire e di lui mi resta soltanto una fotografia nell'album. Eppure attecchiva spesso a Santiago ed era il tipo di albero che amavo di più, assieme al pino marittimo e alla profumata macchia mediterranea. E una volta - lo vedo come fosse ora - sulle scale dell'ingresso, di pietra, l'amico cileno di sempre Arturo mi aiutava a portare una pesante valigia ma rovinava a terra inciampando. Si disinfettò da solo la ferita al polso con la freddezza di un agente segreto, quale era stato. Ogni anno che andavamo lì in estate, Arturo ci veniva a prendere all'aeroporto di Pudahuèl (dove poi trovai il mio cane Maleto) e quando arrivavamo a casa prendevamo assieme un abbondande Campari-Naranja, un Campari all'arancio, che per lui - che era pressochè astemio - rappresentava un festeggiamento carismatico. Lo beveva solo in quella occasione, mi confidò. Di questi amici ( "amico cileno di sempre"), me ne restano quattro: Arturo, Antonio, Christiàn e Livio, che è lì, ma è veneto.. dove viveva da bambino in Via del Prosecco.
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