Menu' Arte
 

TAMARA DE LEMPICKA




 

di Alessandra Moro





L' interrogativo principale che domina la produzione artistica della pittrice Tamara De Lempicka (1898 - 1980) non riguarda complessità interpretative o tecniche, ma molto più semplicemente se sia da considerare veramente “artistica”. La critica è stata praticamente sempre concorde nel cogliere nelle sue opere eleganza formale, valore decorativo più che intrinseco, alla stregua di affiches, copertine, raffinate immagini di impatto modernamente pubblicitario; un Adrian Lyne ne avrebbe fatta direttrice della fotografia per "Nove settimane e mezzo", complice magari anche la sua disinvolta bisessualità, l'amore per il lusso, la mondanità, la compiaciuta vanità ed il desiderio di provocazione ed ammirazione.
Dove non arriva il talento, arriva la fantasia: Tamara si ritagliò un posto al sole nella bella società parigina degli anni Venti - il cuore pulsante dell'Europa - grazie a ben vendute millanterie. Dichiarava di essere nata nel 1902 a Varsavia, ma la data va arretrata di almeno un paio di anni (la sorella minore nacque nel 1899); affermava di aver frequentato l'Accademia Imperiale a S. Pietroburgo (città dove si trasferì nel 1914), presenza esclusa da una ricerca negli archivi. Dopo il trasferimento a Parigi, si vantò di aver visto il Cubismo già in Russia, mentre le prime opere di tal fatta là apparvero quando era appena dodicenne; costellò di altre vezzose, puerili, presuntuose menzogne la sua vita, non ultima di aver ritratto a metà degli anni Venti un D'Annunzio che invece l'aveva licenziata sbrigativamente dal Vittoriale senza la tela prevista, non essendo riuscito a conquistare le grazie dell'altezzosa pittrice, che peraltro lo aveva etichettato “vecchio nano in uniforme”.
Nel 1916 Tamara Rosalia Gurwik-Gorska aveva sposato il nobile e corteggiatissimo avvocato polacco Tadeusz Lempicki, arruolato nella polizia zarista; nello stesso anno vide la luce Marie Christine, sempre poi chiamata Kizette, prima ed unica figlia: le attenzioni materne si concretizzarono più nell'adoperarla come grazioso soggetto da ritrarre, che come creatura da seguire nella crescita.
La Rivoluzione russa la trasformò da agiata moglie in sbandata esule a Parigi, ma la parola “indigenza” non rientrava nel suo vocabolario e sulla scia di un indovinato suggerimento della sorella Adrienne, iniziò a dipingere e a vendere quadri.
Volitiva e determinata Tamara: Et voilà, nel giro di pochi anni, passò da profuga rifugiata in un alberghetto a pittrice con modernissima (e costosa) casa-bottega in rue Méchain, disegnata dall'architetto Mallet-Stevens, declinata in grigio - colore prediletto - ed arredata da Adrienne. In un'intervista rilasciata nel 1932 l'artista spiegava la scelta di materiali come l'acciaio:
«Liscio e facile nelle pulizie. (…) Personalmente cerco di vivere e creare in modo tale da imprimere sia alla mia vita che alle mie opere il marchio dei tempi moderni». Vero.
Quando, nel 1972, una mostra organizzata a Parigi alla Galerie du Luxembourg, riportò in auge la Lempicka - il cui periodo aureo si circoscrisse, sommamente, nel periodo ruggente della capitale francese, con un breve strascico negli USA, dopo il trasferimento alla fine degli anni Trenta - e le sue molte tele archiviate nella soffitta di rue Méchain, gran parte della critica ne rivalutò l'importanza documentaria, specchio estetico della femminilità etero ed omosessuale di quegli anni Venti che l'avevano incoronata pittrice più alla moda della cosmopolita Parigi.
E lì torniamo a seguirne le gesta: nel '24 conobbe Martinetti (senza però concretizzare l'intento di andare a bruciare insieme il Louvre), la sua vita pubblica era lanciatissima, sostenuta da un abituale uso di cocaina, rallegrata da notti nei locali, frequentazioni del celebre salotto di Natalie Clifford Barney, variopinte relazioni (a cominciare da Ira Perrot, poi ritratta en robe bleu), alternate a sedute diurne di lavoro. Marito e figlia ricoprivano un ruolo marginale in tale contesto, scivolarono sullo sfondo di una ribalta dorata e sparirono: all'inizio degli anni trenta ritroviamo Tadeusz risposato con la più quieta Irene Spiess, Tamara che bracca (e cattura) la cantante Suzy Solidor e Kizette sistemata in collegio.
Fu un epilogo familiare triste ma coerente con la vita che Tamara si era voluta e guadagnata, sul modello della Donna Virile descritta nel Manifesto futurista del 1912, virile come il modo di trattare i suoi soggetti, vigorose virago, ammiccanti femmine dai contorni ben formati. Virile come nella ricerca di indipendenza, nella disinvoltura dei costumi sessuali, nella spregiudicatezza che ne fece un'icona mondana nella sfrontata Parigi degli anni Venti.
La sua arte fu e rimane riconoscibile, certo, ma non originale, basti confrontare i suoi nudi con “Il Bagno” di Zinaida Serebriakova (1913), le sue quinte cubiste con il “Ritratto di Anna Akhmatova” di Natan Al'tman ('14) o, dello stesso autore, osservare nel “Ritratto di Arthur Lourie” ('15), un tono di blu riecheggiante una cromìa tipica dell'edilizia pietroburghese all'epoca, che spudoratamente Tamara farà suo e spaccerà per “blu Lempicka”, nobilitandolo di ascendenze belliniane. In realtà i cieli di Giovanni Bellini non avevano nulla a che spartire con un colore di carta da parati, derivante dal blu adoperato dal pittore Alexander Benois nelle sue scenografie teatrali.
Grande peso nella formazione della Lempicka ebbe André Lothe, di cui seguì le lezioni a Parigi; studiò Ingres, Carpaccio, Michelangelo, Pontormo, Botticelli. Ammirò l'arte italiana durante soggiorni toscani, romani, milanesi; espose per la prima volta nel '22 al Salon d'Automne e, tra recensioni che poco avevano di lode, ma che comunque ne parlavano, ritagliò fama e spazio per numerosi ritratti: intellettuali (“Portrait d'André Gide”), principi (“Portrait de S.A.I. le Grand Duc Gabriel”), soprattutto amazzoni (“Portrait de la duchesse de la Salle”, “La belle RafaËla”) e duetti saffici (“Perspective”, “Myrto”), imponenti gruppi di nudi muliebri (“Le Rythme”) e anche - nota materna e lontana dalle trasgressioni - la piccola, graziosa Kizette (“Kizette en rose”, “Kizette au balcon”).
La moda è effimera, e anche le quotazioni di Tamara, artista di tendenza, cominciarono a calare, dopo anni in cui aveva raccolto riconoscimenti importanti come l'acquisto da parte dello stato francese della “Jeunne fille en vert”, una personale nel suo atelier, una collettiva in cui era presente Picasso, un filmato per il cinegiornale Gaumont Pathé girato nella sua casa-studio.
Il virtuosismo formale delle sue statuarie femmes venne a noia e una vena di depressione che si stava insinuando nell'animo della pittrice la fece virare su soggetti meno patinati: volti sofferenti (“Jeanne d'Arc”), raffigurazioni religiose (“Sainte Thérèse d'Avila”), fino a quella “Mère supérieure” del 1935, da cui mai si volle separare, tela nata dopo un colloquio in un convento a Parma con la badessa, a cercare pace e serenità interiore.
Nel 1933 Tamara sposò il ricco barone Raoul Kuffner, col quale nel '39 emigrò in America, in fuga dalla depressione (lei) e in cerca di affari a Cuba (lui).
Una meravigliosa casa coloniale nell'isola non bastava alla pittrice, che preferiva la mondanità di Beverly Hills; peraltro, dopo l'invasione della Polonia da parte di Hitler (1 settembre '39), ci fu la preoccupazione di far espatriare i rispettivi figli - Kizette, Louisianne e Peter, nati dalle prime nozze del barone - e per questo i Kuffner si spostarono negli USA, per le pratiche. Tamara visse il primo periodo americano godendo della fama europea, ma la volontà divistica rosicchiò sempre più spazio a quella artistica, le amicizie hollywoodiane le risultarono più utili dei quadri per interessare la stampa e finì con parlare più di Greta Garbo che di mostre. Nel 1941 il “ New York Journal ” commentò «la baronessa ha più interesse a parlare di Hollywood che delle sue pitture».
I numerosi e dispendiosi ricevimenti allarmarono il marito, che faticò non poco a contenere le uscite; Kizette - che al suo arrivo era stata pubblicamente presentata come sorella e non figlia: Tamara aveva affermato di non avere figli e Kizette, giovane e bella, rischiava di rubarle la scena - si sposò nel '42 a Washington, ma i rapporti con la madre non furono mai idilliaci; la rese due volte nonna e - a onor del vero - a Victoria e Christie la pittrice dedicò forse più cura che alla figlia. Pagò loro gli studi in scuole private, viaggi in Europa e cucì a mano i loro abiti finché non si maritarono.
Viaggi a Parigi, Roma, Capri, Venezia. E una limitata produzione: le finanze di Kuffner furono costantemente a dura prova sotto l'egida di Tamara, i cui guadagni dei tempi d'oro erano un lontano ricordo; nell'autunno del '61 il barone morì e la vedova - reduce da una deludente mostra alla fine di novembre - si ritirò, mantenendosi vendendo man mano proprietà ereditate.
Dagli anni Settanta ci fu una riscoperta della sua arte; la pittrice, pur minata dall'arteriosclerosi e da malanni di vecchiaia, organizzò - dopo “Tamara de Lempicka” di Franco Maria Ricci, uscito nel 1977 - la pubblicazione di un nuovo libro con prefazione di Germain Bazin, conservatore del Louvre, spostandosi temporaneamente da Cuernavaca, in Messico, dove da anni viveva, a Parigi.
Morì nella notte del 18 marzo 1980 a Cuernavaca, dopo aver cambiato almeno sette volte testamento e disponendo che le sue ceneri venissero disperse sul vulcano Popocatepetl, come avvenne per mano di Kizette e dell'amico scultore Victor Contreras; poco dopo apparve a Tokyo il volume con il testo di Bazin, prima pubblicazione scientifica sulla sua opera.

 
   
  scrivi a info@corradobarbieri.com