EDWARD HOPPER
di Corrado Barbieri
Per difendersi e per rispondere ai soliti critici, ai soliti, eterni, intellettuali inutili, Edward Hopper disse: “Non dipingo ciò che vedo, ma ciò che provo”. Abbastanza un' ovvieta' per un artista,.. ma andando in tal modo diretto alla base e poi alla funzione dell’arte, alla sua prerogativa di far provare sensazioni.
Non e' questa la sede per parlare del periodo felice che l'artista trascorse in Francia, alla scoperta degli impressionisti, ne' per indagare se nei suoi ritratti femminili si ispiro' al pittore danese Hammershoi, e se lo conobbe o meno, ne' per trattare del dibattuto dipinto "Soir Bleu", col titolo che richiama i versi del poeta francese più amato. Si puo' iniziare invece facendo notare che Hopper se ne fregò di fauvismo, cubismo e astrattismo, e seguì la sua strada secondo il criterio espresso nella sua frase.
Se solitudine e inquietudine nei suoi dipinti appaiono in modo evidente a chiunque, e credo che nessuno sia riuscito come lui a trasmetterle, ciò che colpisce di più è come abbia ripreso il Novecento nel suo periodo centrale, che è poi quello che meglio simboleggia la modernita', negli aspetti che hanno caratterizzato la vita di tanti, quelli che in tanti abbiamo vissuto e che credo ci abbiano trasmesso gli stessi sentimenti che Hopper ha immortalato in altrettanti momenti artistici.
E dicendo questo cito subito "Summer evening", incontro tra ragazza e ragazzo, amici o innamorati, in un'atmosfera e con un atteggiamento tipici della nostra epoca : sulla porta di casa, con un'espressione di noia tipica di quella età, nella solitudine e nel silenzio di una periferia, in una giornata che per loro sta per chiudersi.
Per poi far seguire "Nighthawks", I nottambuli, dove l'artista raggiunge il suo apice descrittivo, trasmettendo con quella scena un’atmosfera ricca di sensazioni diverse: il silenzio dell'ora, un momento di sospensione dopo una giornata probabilmente convulsa della città, la noia e la stanchezza di un barista, la solitudine pensosa di un avventore, il rapporto stanco di una coppia, lo squallore di un bar quando si svuota, l’odore pesante di birra, unito a quello di fondi di caffè, e,all'esterno, l'effetto sempre triste di un negozio chiuso con la vetrina vuota.
Un secolo, il Novecento, rappresentato dall’auto, dal petrolio, "Gas" appunto. Una stazione di servizio deserta, con il solo proprietario, in una strada altrettanto deserta, fiancheggiata da un bosco inquietante, misterioso, impenetrabile alla vista. Un luogo isolato che può diventare sosta per un viaggiatore stanco, o un’occasione di rapina, o semplicemente il simbolo impersonale e frustrante del progresso tecnico del secolo.
Si puo' anche affermare che Hopper sia stato il primo artista a rappresentare l’incomunicabilità. Una coppia in casa che mostra una noia palese, l’abitudine che incombe, lui legge il giornale, lei, voltandogli le spalle, con un dito preme il tasto di un piano, svogliata, in un salotto angusto e impersonale, in "Room in New York". Donne sole in stanze disadorne che guardano verso il vuoto. Una passeggera solitaria che legge in uno scompartimento di treno.
Una donna in un bar, sola, anche lei con lo sguardo fisso in un punto qualsiasi.
Sempre per primo, Hopper riusci' a rappresentare perfettamente il terribile grigiore del paesaggio e dell’edilizia urbana, tutta uguale nelle città americane, mattoni, acciaio, tralicci, linee elettriche, fermate d’autobus. Per contrasto, i suoi paesaggi ritratti a Cape Cod, dove aveva una casa, ci sorridono, di bianchi edifici, di fari, di mare, di vento che muove gli alberi nei giardini. Ma anche qui la solitudine e’ palpabile, incombente, quella che senz’altro lui provava come condizione sua ed umana in generale.
E le luci? Incredibili, violente, che tagliano tutto ciò che incontrano, o che colpiscono come flashes, disegnando giochi inusitati e imprevedibili.
Poi ci sono i suoi paesaggi di campagna, minoritari rispetto agli altri soggetti, ma proposti con giochi di ombre, pennellate e toni di verde che si possono definire unici, perché diversi, proprio mai interpretati cosi' da nessuno.
Di gran forza e penetranti, le sue due acqueforti, inquietanti, asciuttissime nella rappresentazione, apparentementesemplici, "Night Shadows" e "Evening Wind": non possono essere meditate, studiate, ti colpiscono e basta, con una sensazione immediata, violenta e di difficile definizione. E proprio per questa impossibilità di entrarvi attraggono senza mezzi termini ogni volta che ci capita di guardarle.
Mi piace chiudere queste riflessioni con un tramonto, quello bellissimo, dietro la triste struttura di una ferrovia, "Railroad Sunset". Sempre solitudine, ma stavolta dolce, che induce speranza.
Una sensazione del tutto personale: sotto certi scenari di Edward Hopper pongo una tromba, un ritmo lento di jazz, altro simbolo del Novecento, che si sposa perfettamente con quelle immagini.
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