IL FAUVISME
il trionfo del colore puro segna l'origine delle avanguardie
di Cosetta Dal Cin
Tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento il clima scientifico e culturale era in pieno fermento. Gran parte del sapere dogmatico di stampo positivista venne messo in discussione da intellettuali e scienziati, spinti dalla consapevolezza che il viaggio alla scoperta della verità delle cose era ancora lontano dall’essere del tutto concluso.
In molti presero parte al grande dibattito che mirava a superare posizioni considerate indiscutibili. Tutto ciò non poteva non influenzare la ricerca pittorica, da sempre legata a doppio filo all’ambiente scientifico e culturale cui appartiene. Nuove teorie furono formulate sul concetto di materia, vista ora come qualcosa di dinamico, relativo alla soggettività.
La risposta artistica si concretizzò nelle cosiddette "avanguardie", prima tra tutte, in ordine cronologico, quella francese del fauvisme, frutto di diverse influenze, dalla pittura drammatica di Van Gogh a quella intensamente cromatica e mistica di Gauguin, dal complesso linguaggio di Cèzanne alle sperimentazioni luministiche dei pointilliste. L’espressionismo francese, che dal 1905 - anno d’entrata ufficiale in scena del movimento - avrebbe preso il nome di fauvisme, ebbe come suoi rappresentanti principali Matisse, Marquet, Manguin e Camion - ex allievi di Moreau - Puy, Derain e Vlaminck, Valtat e Van Dongen, e, ultimi in ordine di tempo, Braque, Dufy e Friesz.
L’origine del termine fauve, “belva”, risale all’espressione con cui il critico Vauxcelles definì nel 1905 un’armoniosa scultura al centro della sala VII del Salon d’Automne nella quale si trovavano i dipinti di Matisse e i suoi un «Donatello tra le belve».
Gli artisti del gruppo proponevano una pittura nuova e moderna, libera da condizionamenti accademici, fondata sulle potenzialità espressive del colore, rinnegando così il ruolo primario del disegno e del chiaroscuro, il rigore prospettico, la cura del dettaglio. Il colore, impiegato puro in tutta la sua luminosità, doveva agire sulla tela alla stregua «di un tubetto di dinamite». La valenza simbolica del colore veniva sfruttata dai fauve in tutte le sue declinazioni. La pennellata era più o meno larga, piatta e pastosa; le tonalità forti e stridenti, ben lontane dal dato reale. La critica conservatrice rifiutò a priori questa pittura anarchica, «un’offesa al buon senso e alla ragione» fatta da «straordinari burloni che si divertono alle nostre spalle o da pazzi in libera uscita», come scrisse un critico dopo aver visto la sala VII del Grand Palais.
I fauve non erano un gruppo omogeneo e compatto bensì artisti diversi che avevano trovato nel culto gioioso del colore un punto d’incontro.
Colore inteso come simbolo, medium evocativo di emozioni, strumento espressivo della soggettività dell’artista che registra con immediatezza ciò che ha di fronte in modo del tutto personale. I fauve voltarono così le spalle al naturalismo ottocentesco, tesi a raffigurare, più che la realtà, la propria visione emotiva, ottenendo spesso esiti di forte aggressività cromatica, come nel caso di Vlaminck.
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