“Hello,I’m Johnny Cash”, mi ha sempre emozionato questa semplicissima apertura di ogni tua apparizione. E iniziavi. In un'America dove i cantanti country sono sempre stati centinaia, e pur tra i grandi santoni di quel genere musicale, tu sei sempre stato al di sopra, nettamente, per il calore di quella tua voce pastosa e baritonale, per il proporti sobriamente in nero, per il tuo ritmo che nulla aveva da invidiare inizialmente ai Big del Rock’n Roll, per il tuo animo che ci giungeva direttamente attraverso le tue parole.
Fosti uno del Million Dollar Quartet ( vedi in questa sezione) e questo già ci dice molto di te. Eri però anche diverso per la serietà della tua espressione, che nascondeva una tristezza che veniva dall'infanzia, dall'avere presenziato allo strazio di un fratellino ad opera di una sega elettrica. Sì, perché eravate poveri falegnami e tu aiutavi anche nelle campagne, portando l'acqua col secchio attraverso campi sterminati, ai raccoglitori di cotone, secondo un'usanza che vedeva i bambini dedicati a questa mansione. Tuo padre impiegò anni a superare l'idea che era morto il figlio preferito, ma che esistevi anche tu, e che non eri un perdigiorno semplicemente perché avevi scelto di cantare e suonare, e per te questo fu un altro cruccio.
Da qualche anno il film "Quando l'amore brucia l'anima", la tua biografia, ci ha svelato molto di te, anche perché qui in Italia non conoscevamo tanti dettagli. La parte è stata recitata mirabilmente da Joachim Phoenix, credibile, e bravo a cantare e a muoversi, anche se dopo aver visto il film, si è spinti giocoforza a vedere e ascoltare un video di un tuo concerto, per capire ciò che il film non può rendere, il tuo carisma, la tua simpatia pur con la vena malinconica. E che entusiasmo sentire quando dal pubblico qualche giovane urlava “I love You Johnny Cash”!
Quanti brani in repertorio! E che brani, che storie nelle tue canzoni! Tragiche, nostalgiche, scanzonate, intense sempre, tutte. Hai sempre vestito in nero e ci hai spiegato il perché in una canzone. Per ricordare i reietti, gli sfortunati, quelli che avevano sbagliato nella vita. Sfondasti proprio con un brano dedicato a un ragazzo che per gioco, per insensatezza, nonostante le raccomandazioni della madre di non portare armi, uccide un uomo, a freddo, e finisce a vita nel penitenziario di Folsom.
"Folsom Prison Blues", lo ascolti oggi e ti rendi conto che non ha né tempo né luogo, ritmica, drammatica, incisiva come mai.
Molti anni prima Woody Guthrie lo aveva fatto, suonare in una prigione, ma tu lo hai voluto fortemente e hai ripetuto questa esperienza più di una volta, seminando scandalo tra conservatori e perbenisti di tutta l’America, nonché tra i tuoi agenti e impresari musicali. Fosti spinto dalle tante lettere che ricevevi da quei posti, di carcerati che ascoltavano via radio i tuoi pezzi, le tue storie in cui si sentivano protagonisti e che per un momento li facevano evadere dalla cupezza del’'internamento, e ben afferravano quel tuo sentire verso gli sfortunati, gli esclusi reclusi.
Fu un successo enorme, specie nel tempo: concerti con una carica e una spontaneità probabilmente irripetibile, perché sentivi di svolgere un ruolo psicologico importante per quegli uomini. E siccome furono anche filmati, si assiste alle reazioni del pubblico degli internati in quelle carceri di massima sicurezza, vedendo i volti stranamente, momentaneamente rasserenati, divertiti, dei prigionieri, ma anche le guardie, tante e attente,armate con fucili a pompa, spianati,pronti. Sensazioni di cui è impossibile liberarsi, immagini per le quali è impossibile non interrogarsi, sull’uomo, sulla vita, sui sistemi carcerari. E non lesinavi certo le parole di critica verso il sistema, specie quando ti accorgesti che l’acqua da bere era di color paglierino....
... San Quentin, I hate every inch of you.
You’ve cut me and you've scarred me thru an' thru.
And I'll walk out a wiser, weaker man;
Mister Congressman, why can’t you understand?...
... San Quentin, may you rot and burn in hell.
May your walls fall and may I live to tell.
May all the world forget you ever stood.
And the whole world regret you did no good...
Come successivamente in quasi tutti i tuoi concerti, era presente June anche lì, tua moglie, ottima cantante country, e artefice di averti salvato dall'uso di pillole e cocaina. Foste una coppia splendida, artisticamente e umanamente parlando.
Credo tu sia stato, Johnny, profondamente amato da tutti gli americani, delle idee e provenienze sociali più diverse, perché in fondo incarnavi un tipo di americano genuino, rispettoso del prossimo, compassionevole, grande amico all'occasione, ma anche patriota senza falsi miti, senza chiusure mentali. Bellissima quella "Ballata di Ira Hayes", commovente per come ci descrivi questo nativo americano, eroe del Monte Suribachi nell'inferno di Iwo Jima, uno dei sei che piantò la bandiera che fu ripresa dalla famosa fotografia, pubblicizzata alla nausea, cosa che rovinò la vita del povero Ira, che non si sentiva eroe per quel motivo, e considerava eroi veri i propri compagni caduti, spesso in modo straziante.
Impossibile citare tutte le storie che ci hai raccontato e che si trovano nelle registrazioni, nei video, su youtube, iTunes, da ascoltare, assimilare e godere, perché ogni canzone è una storia e viceversa e tu le interpreti tutte facendole sentire sulla nostra pelle, storie estreme o di tutti i giorni che siano, di drammi o di noia, di amore o di odio.
Ti ascolto da sempre, ti riascolto anche con più passione, ti vedo nei concerti e mi stupisco sempre del tesoro che ci hai lasciato. Come recita una scritta in rete “The last great American”.