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ANNA ACHMATOVA



di Adriana De Angelis





Si può leggere un poeta attraverso le immagini che di lui ci hanno offerto gli artisti?
Per Anna Achmatova (pseudonimo di Anna Andreevna Gorenko; Bolscioj Fontàn, Odessa, 23 giugno 1889-Domodedovo, Mosca, 5 marzo 1966), questo è decisamente possibile. Da sempre, del resto, poesia e arte hanno percorso strade parallele e la storia della Achmatova non ne è che un ennesimo esempio. Un incantevole disegno a matita, datato 1911, è quel che resta della ventina di ritratti di Anna Andreevna eseguiti da Amedeo Modigliani.
Ci presenta la poetessa, giovanissima, negli anni che trascorse a Parigi. Il pittore, interessato più alla posa che alla somiglianza, ci descrive con pochi, essenziali tratti una donna dalla personalità sicura, già ampiamente formata, elegantemente allungata come una statua antica di cui possedeva la consistenza e la forza di sopportare tutto, tipica della sua gente, che la contraddistinse in vita. Le piccole mani da bambina che ricordano quelle di Anna Karenina, descritte da quel Tolstoj che non amava perché da lei ritenuto maschilista, sono l’unica testimonianza di quella freschezza giovanile che percorre le sue liriche, iniziate a comporre dall’età di 11 anni.
L’incontro tra il pittore italiano e la poetessa russa avvenne all’indomani del matrimonio della Achmatova con il poeta Nicolaj Gumilëv, fondatore dell’acmeismo (movimento poetico che, opponendosi al simbolismo, dichiarava che la poesia non deve uscire dai limiti dell’esistenza quotidiana). Ancora sconosciuto, povero, autodidatta il pittore; bella, elegante, colta, raffinata, di ottima famiglia la poetessa: cosa potevano avere in comune? Assolutamente nulla, eppure uno strano destino li avvicinò portandoli a stimarsi e capirsi profondamente nel pur breve ed intenso periodo in cui si frequentarono. Oltre alla passione per la pittura e la poesia che li contraddistinse entrambi (condividevano, tra l’altro, l’amore per la Commedia dantesca), tanto Modigliani che la Achmatova ebbero dall’esistenza fama e tragedia. Lei aveva individuato subito il suo genio e Modigliani aveva della donna Achmatova una percezione dai precisi contorni architettonici, del tutto simile al tipo di poesia che Anna Andreevna andava scrivendo.

La Parigi cosmopolita dei primi anni del XX secolo, capitale di quel vasto fermento intellettuale e culturale che percorse tutta l’Europa infiammando gli animi fino alla terribile battuta d’arresto della Grande Guerra, fece da sfondo al loro incontro. Modigliani ebbe vita breve, ma intensa; la Achmatova ne ebbe una molto più lunga, durante la quale fu l’unico poeta russo ad avere l’incredibile fortuna di scrivere sia prima che dopo la Rivoluzione. Quando Modigliani la ritrasse, proprio a Parigi, Anna aveva appena pubblicato sulla rivista "Sirius" delle poesie che furono poi raccolte nel volume "Sera" (1912). Chiaro esempio di poesia acmeista, le liriche raccontano gli oggetti semplici degli interni di San Pietroburgo, città profondamente amata durante tutta la vita dall’autrice sin da quando, bambina, vi si era trasferita con la famiglia. Ritornata in patria definitivamente prima della nascita dell’unico figlio, Lev, i versi della poetessa divennero molto famosi ed apprezzati, soprattutto dopo l’uscita, nel 1914, della seconda raccolta di liriche, "Rosario". Anche in queste l’originalità della Achmatova si rivelò nel taglio discorsivo ed intimistico, imperniato su aspetti dimessi, ma laceranti dell’amore quotidiano. Lo scenario geografico nella sua vita era cambiato, ora era in Russia e non più a Parigi, ma il profondo clima intellettuale di cui si era sempre nutrita sin dall’infanzia continuava e continuerà a circondarla sempre e per tutta la vita.

Come Modigliani aveva fermato il momento francese di Anna, Nathan Altman, suo connazionale vicino all’avanguardia, presente a Parigi negli stessi anni in cui lei vi era vissuta, la dipinse, proprio nell’anno della pubblicazione di "Rosario", in un celebre ritratto. Fiera, con il profilo aquilino che la distingueva, stagliandosi come su una medaglia antica dal resto, avvolta in uno scialle giallo, uno dei tanti che amava indossare quando declamava i suoi o i versi dell’amico Block, Anna appare nel momento più fulgido della sua fama, colorata e poliedrica espressione di quel ricco mondo interiore ed esterno che la contraddistingueva.
Block, Majakovskij, l’eterno Puskin e Pasternak non sono che alcuni dei nomi che riempirono la vita e gli scritti di Anna, assieme all’adorata San Pietroburgo. Nel 1917, uscì "Lo stormo bianco" che segnò una svolta nella sua produzione. La guerra, la poesia civile e religiosa memore delle sacre icone divenne il tema centrale delle sue liriche, senza che lei prendesse mai posizione nei confronti della Rivoluzione che stava avendo luogo in quegli stessi anni. Seguirono "Piantagione", "Proprio sul mare" e "Anno Domini MCMXXI", che, uscito nel 1922, segnò la fine del suo primo periodo poetico, contraddistinto dal carattere autobiografico, umanamente concreto e di immediata comunicazione, colmo di slanci e di incredibile forza lirica nel descrivere i sentimenti calati nella quotidiana realtà dei suoi scritti.
Seguì un lungo silenzio editoriale di circa vent' anni a cui non corrispose certamente il silenzio della sua anima. Nel frattempo aveva divorziato da Gumilëv che, imprigionato per aver partecipato ad un complotto sovversivo, era stato fucilato nel 1921. Aveva poi sposato in seconde nozze l’assiriologo Vladimir Silejko da cui divorziò quasi subito per sposare lo storico dell’arte, perito in prigionia, Nicolaj Punin, da cui si divise nel ’38. Nel ‘35 il figlio, Lev Gumilëv, veniva anche lui imprigionato nella fortezza di Kresty e condannato a morte, condanna che fu commutata prima in un mandato ai lavori forzati e poi nell’obbligo di arruolarsi nell’Armata Rossa per combattere i nazisti.

Il destino tragico della Achmatova si era ormai delineato. I pittori però continuavano a ritrarla. Mentre lei componeva " Requiem " (rimasto inedito in Russia fino al 1987, diario essenziale e straziante del periodo che va dall’arresto del figlio alla sua condanna a morte. Il pittore A. A. Osmërkin, conosciuto a cavallo tra gli anni ’20 e ‘30, esponente anche lui come Alt’man dell’avanguardia russa, la dipinse in un quadro intitolato " Notte bianca ". Il ritratto, che la poetessa trovava molto somigliante, in cui sfoggiava tra i capelli un pettine a lei molto caro, fu iniziato durante le notti bianche del ‘38 e terminato nel ’39 e si trova oggi al Museo letterario Statale di Mosca. Il periodo immortalato sul volto di Anna Andreevna da Osmërkin è quello durante il quale, ogni mattina, per diciassette mesi, la poetessa si recò davanti al carcere per avere notizie del figlio. La poesia che scaturì da questa tragica esperienza, condivisa da altre madri, si fece espressione di un intero popolo sofferente. Il suo viso e la sua anima ne uscirono perennemente scolpiti: gli artisti smisero di ritrarla, pensò la vita a farne un monumento al dolore. “Uno scultore voleva fare la mia statua, ma poi ci ha ripensato dicendo che era poco interessante perché la natura aveva già fatto tutto” disse l' Achmatova alla Bukovskaya, sua biografa e amica. Ed in effetti, a parte una statuetta di bronzo fattale dalla scultrice Natal’ja Dan’ko, nessuno, a parte la vita e il profondo dolore sofferto, scolpì mai il suo splendido viso. Il lungo silenzio, dovuto a ragioni politiche (era stata attaccata dalla critica che la definì reazionaria), venne interrotto bruscamente nel 1940 quando la poetessa, malata e stanca, accettò di pubblicare la raccolta " Da sei libri ". Un anno dopo fu chiamata da Stalin a parlare alla radio per rincuorare i russi dopo l’invasione tedesca. Lo stesso anno, evacuata dall’amata San Pieroburgo, fu sfollata a Taskent.

A guerra finita, venne attaccata dal Comitato Centrale del Partito Comunista che condannò i suoi scritti perché “esempio di pessimismo nevrotico e culto del passato aristocratico della Russia”. Nel 1949 il figlio fu di nuovo arrestato e lei riuscì forse a salvargli la vita scrivendo, nel 1950, "Gloria alla patria", quindici poesie in lode a Stalin. Dopo la morte del dittatore, nel 1956, Lev ottenne definitivamente la libertà e le poesie di Anna ripresero a circolare. Dopo la pubblicazione di "Poema senza eroe" e "Un serto ai morti", dedicato agli amici quasi tutti uccisi dal regime comunista, ricevette nel ‘64 in Italia, dove le fu concesso di venire, il premio internazionale Etna-Taormina e nel ’65 la laurea honoris causa dall’Università di Oxford. Nei suoi ultimi lavori, con estremo coraggio, cercò di conciliare l’intimismo e la limpidezza delle liriche giovanili con un’ampia e drammatica visione della realtà e della storia. Si spense vicino Mosca, nuovamente famosa come all’inizio della sua vita, nel marzo 1966, unica memoria rimasta dello spirito della Grande Madre Russia sopravvissuta con caparbietà al lungo, doloroso orrore di quegli anni.


Al Mio Caro

Non mandarmi una colomba,
non scrivere lettere inquiete,
non soffiarmi in viso il vento marzolino.
Ieri sono entrata in un verde giardino
sotto la tenda di ombrosi pioppi
dove c’è pace per l’anima e il corpo.
E da qui vedo la cittadella,
le caserme e le garitte del palazzo
e sulla neve il ponte giallo cinese.
Mi aspetti da tre ore: sei infreddolito,
ma non puoi venir via dall’androne
e stupisci per così tante stelle nuove.
Salterò su un ontano come un grigio scoiattolo,
correrò a balzi come un timido animale,
ti chiamerò cigno perchè non abbia timore
lo sposo di attendere nella neve turbinosa
e azzurra la sposa defunta.

 
   
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