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SORSE L'ALBA MA NON IL GIORNO...
John Steinbeck fra mito e realtà

di Maria Giulia Baiocchi
























La disciplina di scrivere parole punisce sia la stupidità sia la disonestà
(John Steinbeck, 1930)


Ogni uomo possiede mille volti e, come in una sorta di sofisticata alchimia, ognuno di essi si appropria di mille esistenze. Caricature o fragili maschere d’argilla che giacciono nel profondo mistero dello sguardo e riemergono, timide o aggressive, lungo il confine che separa la consapevolezza dall’ignoto.
Qualcuno passa, si sofferma, scorge quei volti deformi dove le speranze e le illusioni restano attaccate con forza, li raccoglie, li osserva, li comprende, li ascolta e dona loro una voce che diventa prepotente fra le righe di una pagina e poi di un libro.
Ecco le mille storie di John Steinbeck emergere senza l’affanno del passato o del futuro, senza l’ingordigia del presente costretto a correre in avanti nella vana speranza di raggiungere il tempo.
Fra le righe di John Steinbeck si svela a tratti la sua anima ed è difficile inseguirla, raggiungerla e trattenerla quel tanto che basta per intuirla per poi lasciarla andare via di nuovo, accontentandosi di quanto ci ha narrato, dolce o violento, leggero o drammatico.
Allora la forza delle parole si afferma eterna e inalterabile, la voce che fu di John Steinbeck risuona limpida e chiara, si stagliano le sue idee come profili neri contro la luce, vivono le sue storie e i suoi personaggi e non sarà il tempo a zittirli ma solo l’aridità dei cuori.

Maria Giulia Baiocchi


Il percorso di John Steinbeck uomo è indissolubilmente legato al suo divenire scrittore. I volti di un’unica anima sono cresciuti scontrandosi e incontrandosi ogni volta che l’inesauribile trama dell’esistenza si mostrava e s’insediava fra i più intimi pensieri.
Come accade in natura, quando una materia amalgamandosi con un’altra crea qualcosa di nuovo, così Steinbeck seppe fondere perfettamente gli ingredienti che componevano il suo vissuto, dimostrando che basta uno squarcio di mondo per interpretare l’universalità della vita.
Forse, se si fosse stati testimoni della genesi di un suo romanzo, si sarebbero visti l’uomo e lo scrittore guardarsi come a uno specchio. E chissà quale fu la scintilla che accese il primo bagliore del romanzo che gli diede fama e lo consacrò agli occhi del mondo rendendolo unico.
Era già reduce di diversi scritti quando “Pian della Tortilla” (Tortilla Flat) uscì nel 1935. Steinbeck aveva trentatré anni e da sempre desiderava diventare scrittore. Ma rispetto a quanto aveva già scritto, in “Pian della Tortilla” emergeva un suo lato diverso, insolito, dissacratorio; l’emarginazione sociale e i problemi quotidiani di chi è abituato ad arrangiarsi non erano denunciati dallo scrittore con toni forti e decisi, ma erano evidenziati dal carattere dei protagonisti, uomini semplici e privi di mezzi, dediti all’alcol, all’amore, al dolce far niente; nello stesso tempo risaltava la loro disarmante umanità, pregna di commozione.
Nel romanzo, ambientato a Monterey, luogo che appartiene intimamente a Steinbeck, Danny e i suoi amici sono paisanos, vale a dire i discendenti degli antichi conquistatori spagnoli, dei messicani e degli indios, che si perpetuarono mescolando il loro seme alla linfa del nuovo mondo. All’inizio dell’Ottocento, Monterey era un presidio spagnolo capoluogo di provincia che contava ventidue case dai muri di fango che circondavano il porto. Più a nord, Yerba Buena, detta poi San Francisco, era un agglomerato di dodici case e cinquanta abitanti.
“Che cos’è un paisano? È un miscuglio di spagnolo, di indio, di messicano e di varie razze caucasiche. Gli antenati suoi vivevano in California anche cento e anche duecento anni fa. Egli parla inglese con accento paisano e spagnolo con accento paisano”.
Essi trascorrono il loro tempo ragionando sugli aspetti della vita, dell’amicizia, accettando il destino e la nascita in quel luogo che li rende paisanos, e quindi diversi dagli americani e dai numerosi italiani ormai integrati, dediti al lavoro e al miglioramento del loro status sociale.
Per Danny e i suoi amici ci sono e avanzano i boschi, le donne allegre e compiacenti, il vino inebriante o il sole che scalda la pelle dopo una notte trascorsa all’addiaccio. Non conoscono il peso dei doveri sociali e familiari, dei legami affettivi troppo stretti, della proprietà che crea ansia e preoccupazione. Per loro esiste la libertà di possedersi e di disfarsi della vita senza rimpianti, magari dopo una bevuta con gli amici più cari, gli stessi con i quali si dividono i galloni di vino, le scazzottate e le avvincenti leggende narrate con maestria e ascoltate con serietà e attenzione da tutti.
“Fecero il fuoco e arrostirono il prosciutto, e mangiarono il pane raffermo. Il brandy calò rapido nella bottiglia. Quando ebbero mangiato essi si accucciarono accanto al fuoco e succhiarono le ultime gocce dalla bottiglia, con una delicatezza di api stanche. E la nebbia scese su di loro, li avvolse, mentre il vento sospirava tra i rami più alti dei pini, in mestizia. Fu mestizia di solitudine”.
La storia dei protagonisti del romanzo, Danny, Pilon, il Portoghese e il Pirata è una mescola di realtà e di fantasia, di eroismo che diventa mito. Danny stesso è trasformato in un dio della natura, i suoi amici sono i simboli primitivi del vento, del sole e del cielo; lo scenario è un’antica foresta di pini e il mare brilla lontano dal Pian della Tortilla, estraneo e superbo.
E poi, a completare il mondo di Danny e dei suoi amici ci sono le case di legno scrostato, le cigolanti sedie a dondolo che arredano il portico, gli orti curati scrupolosamente ma anche i cortili infestati dalle ortiche, le galline che razzolano libere e le stradine strette e consumate dallo strusciare dei piedi. C’è la necessità di ritrovare i propri luoghi, gli odori, i volti noti, di poterli riconoscere anche di notte, quando solo le stelle e la luna li illuminano, perché la corrente elettrica non fa parte del mondo dei paisanos.
Per questi uomini è difficile allontanarsi da Monterey e, se non fosse stato per una incomprensibile e sconosciuta guerra scoppiata nella lontana Europa nel 1914, nessuno di loro l’avrebbe fatto. Il ritorno a casa, ma alcuni sono morti in terra straniera, non muta le abitudini di Danny, anzi è la morte di suo nonno a innescare una serie di eventi drammatici e rocamboleschi che accompagneranno Danny verso l’epilogo della storia. Infatti, quale unico erede del viejo, Danny diventa all’improvviso proprietario di due casupole; salire la scala sociale e comportarsi in modo adeguato costringe il giovane a un grande sforzo che coinvolgerà anche i suoi amici in una serie di eventi che li condurranno a un esito inaspettato.
“Contemplarono trasognati la fiamma percorrere la carta del giornale e quasi spegnersi, riprender vita, fiorire alta e larga. Come dinanzi ai piccoli eventi umani, gli amici sorridevano di quel fuoco che dalla carta si attaccava all’asciutto legno della parete”.
Steinbeck è padrone dei luoghi che descrive, non solo perché nato a Salinas ma perché in quell’angolo della sua California svolse diversi lavori quando la scrittura non poteva bastargli per vivere.
La povertà subita in quel periodo trascorso a faticare nei posti più disparati pur di guadagnare qualcosa e salvarsi dalla fame, gli servì a scoprire un universo trasversale dove era facile morire d’inedia fra l’indifferenza di tutti, dove cadere a piombo nell’indigenza fisica e mentale era sin troppo facile e le porte chiuse potevano ergersi come muri invalicabili. In quei momenti per Steinbeck lottare per sopravvivere fu una necessità e quello che vedeva intorno a lui, la miseria materiale e morale, marchiò a fuoco il suo animo.

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John Steinbeck nacque a Salinas il 27 febbraio 1902. A quell’epoca Salinas era un grosso paese che contava all’incirca 3.300 abitanti. Aveva già due sorelle, Esther, nata nel 1892, ed Elizabeth, nata nel 1894. Nel 1905 nascerà Mary, alla quale sarà molto legato.
Suo padre, John Ernst Steinbeck tesoriere della contea di Monterey, anche se il cognome tradiva le origini germaniche, vantava già parecchie generazioni americane; la madre, Olive Hamilton, insegnante, era figlia di emigrati irlandesi. Olive, come era stata sua madre, era una donna tutta d'un pezzo che non si abbassava ai compromessi e che in sé aveva saldi e inflessibili valori morali.
La natura fu parte di John sin dai suoi primissimi anni di vita. In quell’inizio del Novecento, la California, che apparteneva agli Stati Uniti solo dal 1850, era ancora intatta, come la maggior parte dell’America, un mondo che, secondo l’Occidente, contava appena quattro secoli dalla sua scoperta. L’Europa continuava a essere una presenza ingombrante per la giovane America, sia dal punto di vista economico sia culturale, eppure era tanto lontana per un ragazzino come John che, a sua disposizione, aveva infinite estensioni di boschi, lunghe spiagge e il mare, ignoto e immenso, capace di stregare lo sguardo.
La spiaggia era il luogo dove le onde depositavano i tesori rubati all’acqua: rami contorti, conchiglie dalle tinte perlacee o sassi levigati in mille forme diverse. John aspirava gli effluvi marini, quel misto di salsedine, pesce e fradici legni così caratteristico e indimenticabile. Alle spalle del mare, il verde smeraldo o azzurro dei boschi si stendeva con pennellate scure a coprire colline che nelle prime nebbie del mattino disegnavano profili evanescenti.
La sensibilità e la fantasia di John trovavano terreno fertile nell’humus di una terra così ricca di colori e di forme.
Tutt’intorno si muovevano uomini e donne con il loro carico di dolore, povertà, allegria e disperazione. John assimilava le sfumature che distingueva in ogni persona, un esercizio naturale dettato dalla sensibilità di chi sa vedere e ascoltare con l’animo.
Ancora prima John aveva respirato, nell’intimità della sua casa, le narrazioni fantastiche della mamma sui figli d’Erin, l’antico nome dell’Irlanda, ma aveva ascoltato e letto la Bibbia e William Shakespeare, due libri fondamentali nella famiglia Steinbeck, e oltre ai romanzi d’avventura di Jack London, Robert L. Stevenson e di James O. Curwood anche gli scritti di John Milton, Gustave Flaubert, Thomas S. Eliot e Thomas Hardy, tutti autori che gli permisero di aprire una finestra su un intimo universo ancora più ampio del paesaggio fisico al quale era abituato.
La sua infanzia fu libera e ricca, immersa com’era nella lettura di grandi autori e nella continua scoperta della natura quale fonte inesauribile di bellezza.
Di carattere schivo e piuttosto chiuso, non rivelò mai molto dei suoi anni giovanili, solo dopo essere diventato uno scrittore ricco e affermato si sentì più propenso ad aprirsi e a confrontarsi con i suoi lettori e con i media in genere, consapevole di dover pagare il prezzo della popolarità.

Quando nel 1952 pubblicò “La valle dell’Eden” (East of Eden) il suo proposito era di tramandare la storia della sua famiglia ai suoi figli. Egli voleva raccontare che persone fossero state i suoi nonni, i numerosi zii, gli uomini e le donne che avevano popolato la sua infanzia. Al di là della ridda di personaggi che vivono nel romanzo, restano le magnifiche descrizioni dei luoghi che egli scorse da bambino e che mai dimenticò.
“Ricordo … l’odore degli alberi e delle stagioni, che aspetto aveva la gente e come camminavano; ricordo anche il loro odore. La memoria degli odori è molto tenace. Ricordo che i monti Galibán a oriente della valle (la Valle del Salinas n. d. a.) erano monti lievi e allegri, pieni di sole, amabili, e quasi invitanti ... Erano montagne che ti sollecitavano con l’amore della loro erba giallastra. I Santa Lucia si ergevano contro il cielo verso occidente e separavano la valle dal mare aperto, ed erano bui e accigliati, scostanti e pericolosi. In me c’era sempre un terrore dell’occidente e un amore dell’oriente. Da dove mi venisse un’idea del genere non saprei dire …”.
E ancora: “Bastava un bell’inverno piovoso per farci spuntare erba e fiori. I fiori primaverili in un’annata piovosa erano davvero incredibili. Tutto il fondo della valle e i contrafforti erano ricoperti di lupini e di papaveri. Una volta una donna mi disse che i fiori colorati sembravano ancora più splendenti se si aggiungeva qualche fiore bianco per dare risalto ai colori. Ogni petalo azzurro di lupino è listato di bianco, e quindi un campo di lupini è più azzurro di quanto non si immagini. E mescolate a questi c’erano chiazze di papaveri californiani. Anche questi sono di un colore ardente, né arancione né oro, ma, se l’oro puro fosse liquido e potesse essere ridotto a una crema, allora questa crema aurea potrebbe avvicinarsi al colore dei papaveri”.
Dei suoi nonni, Samuel e Liza Hamilton scriveva: “Il giovane Samuel Hamilton veniva dall’Irlanda del Nord e anche sua moglie. Era figlio di piccoli coloni, né ricchi né poveri … Samuel era di bell’aspetto, aveva fascino ed era un ragazzo allegro … Liza aveva un senso del peccato finemente sviluppato. L’ozio era un peccato e anche giocare a carte … Portava sempre i capelli pettinati all’indietro e chiusi in una crocchia. (…) Spaventava i suoi nipoti perché non aveva debolezze. Soffrì tutta la vita coraggiosamente e senza fiatare, convinta che fosse quello il modo in cui il suo Dio voleva che tutti vivessero. Sentiva che le ricompense sarebbero venute dopo”.
Samuel e Liza Hamilton misero al mondo, oltre alla madre di John, altre quattro femmine e altrettanti maschi. Un piccolo esercito di zie e zii che animarono l’infanzia del futuro scrittore.
Egli, pur essendo ancora un ragazzo ingenuo e ignaro del suo domani, imparava a cogliere l’essenza di un uomo e provava a descriverla nelle poesie adolescenziali, nei primi racconti, negli scritti che comparivano sul giornale della scuola, El Galibán. Molto diligentemente scriveva la brutta copia sugli ingombranti registri delle imposte distrettuali, nell’ufficio del padre.
Già allora John era bravo, acuto e brillante ma non poteva bastare. Se davvero desiderava intraprendere la carriera letteraria, gli serviva l’esperienza, il sale della vita, per condire quanto scriveva, per caratterizzare i suoi personaggi, per renderli vivi e indimenticabili.
Conseguito il diploma, nel 1919 John si iscrisse a biologia presso l’università di Stanford. I suoi studi, molto irregolari, gli lasciavano il tempo di scrivere e sulle riviste letterarie The Stanford Spectator e The Stanford Lit furono pubblicati tre poemi satirici e delle novelle.
Steinbeck non si laureò mai e, in quegli anni, per mantenersi svolse i lavori più disparati: lo stradino, il pescatore, proprio a Monterey lavorò in una delle numerose pescherie della città, e il bracciante. Grazie alle sue occupazioni si avvicinò a un’umanità sofferente, destinata a lavorare sino a morirne, uomini e donne ai quali la vita non lasciava scampo. Piegati dalla fatica, possedevano pochi momenti di gioia, magari trovati nell’illusorio paradiso creato dall’alcol, capace di rendere sordi alla fatica e di annullare il peso di un’esistenza senza speranza.
John ascoltava gli ultimi, con loro condivideva la fame, quella vera, la disperazione e ne assorbiva i volti, il linguaggio e soprattutto la vita.
Egli conosceva bene i vicoli, dove la sera si rifugiavano i suoi paisanos, le case di legno battute dal vento, il poco cibo da racimolare ogni giorno, gli oggetti poveri e consunti che rappresentavano un tesoro, il lavoro saltuario e mal pagato. Magre esistenze dalle quali spuntavano la generosità, il senso d’appartenenza, l’amicizia, la miracolosa condivisione del nulla capace di riscaldare i cuori più di un gallone di vino.
Steinbeck sentì sempre dentro di sé il desiderio di affrontare la scrittura elevandola a letteratura. Intorno ai ventiquattro anni ci aveva provato più volte scrivendo romanzi passati inosservati, ma dentro di sé era convinto di poter narrare storie destinate a sopravvivergli. Eppure, quando nel 1926 si recò a New York, dove il mondo letterario girava come un pavone intorno alla sua stessa ruota, con l’intento di sfondare, capì che la sua voce era troppo flebile per essere ascoltata.
Era partito con grandi speranze, tornò a casa deluso e senza un lavoro. Rientrò in California grazie a un viaggio offertogli da un amico su un mercantile che attraccava a San Francisco. Come lui stesso confessò più tardi: “… me ne tornai nella mia cittadina, là feci il macellaio e scrissi romanzi, racconti e drammi e passarono undici anni prima che ripartissi”.
Ma non si sentiva per nulla sconfitto, anzi, la delusione in un certo qual modo lo convinse a perseverare.
Nel 1929 aveva terminato “La Santa Rossa” (Cup of Gold), un romanzo poetico e d’avventura che narra la vita del bucaniere Henry Morgan e l’inseguimento di una donna ideale, che prima era Elisabetta e poi diventa la Santa Rossa. La triste e malinconica conclusione rivelerà quanto sia stato faticoso e inutile per il protagonista rincorrere un miraggio o meglio un’ideale inaccessibile.
“La Santa Rossa” passò inosservato ma il giovane e prolifico scrittore nel 1932 era pronto con un nuovo libro: “I Pascoli del Cielo” (The Pastures of Heaven), un singolare romanzo ambientato in una splendida vallata che uno dei primi conquistatori spagnoli, scoprendola, così aveva descritto: “… una lunga valle si stendeva entro un anello di colline che la proteggevano dalla nebbia e dai venti. Disseminata di querce, era coperta di verde pastura e formicolava di cervi...”.
Nel libro Steinbeck racconta le vicissitudini dei suoi abitanti come storie singole ma legate a uno stesso luogo che funge da splendida cornice. Non sarà la natura ad aiutare quegli uomini, indifferente li guarderà nascere, disperarsi o gioire e infine morire ed essa continuerà a esibire l’identico ed eterno susseguirsi delle stagioni.
In queste pagine, Steinbeck rivela il suo trascorso scientifico, la vita brulicante e impetuosa, dopotutto aveva scelto la facoltà di biologia, descrivendo e analizzando i suoi personaggi con la precisione di uno studioso. È evidente che Steinbeck scrittore cela in sé due aspetti fondamentali: la ricerca e la riproduzione della realtà, come l’aveva vissuta, assorbita, cercata e compresa; la necessità di essere ironico, giocoso, di trovare soluzioni fantastiche, di alleggerire la sua esistenza rifugiandosi in un mondo dove il mito poteva vivere e mescolarsi al quotidiano.
“Tularecito aveva qualcosa di trogloditico nella faccia. La sua grande forza fisica e i suoi doni misteriosi lo distinguevano troppo dagli altri ragazzi dell’età sua, perché uomini e donne non lo considerassero con turbamento”. Così tratteggia la magica e violenta figura di Tularecito che pensa di discendere dalle misteriose creature nascoste nella terra, oppure narra la storia drammatica di Hilda, una giovane pazza, e di sua madre, Helen, bella, altera e pronta a crogiolarsi nella sua stessa sofferenza, o racconta la vicenda del piccolo Manny il cui sviluppo mentale è per sempre arrestato dalla crescita delle adenoidi.
“I suoi genitori sapevano delle adenoidi; avevano anche parlato di farle asportare. Manny si era spaventato all’idea dell’operazione, e sua madre aveva finito per usarla come una minaccia quando il bambino faceva il cattivo. I genitori consideravano la sua aria pensierosa come un segno di genialità. Egli giocava sempre da solo, oppure sedeva per ore e ore con gli occhi fissi nel vuoto, “sognando”, diceva sua madre. E nessuno sospettava che le adenoidi avessero arrestato lo sviluppo del suo cervello”.
Ma le figure che nascono dalla sua penna sono davvero numerose. Accanto a un’indimenticabile e un po’ stucchevole Molly, la bella e dolce maestra del villaggio, dalla storia familiare complessa, ecco affiancarsi la solida personalità di John Whiteside che assiste impotente alla distruzione della sua casa, epilogo amaro de “I Pascoli del Cielo”, luogo dove la bellezza non può evitare la sofferenza e la tragicità della vita: “Un fianco della casa cadde come una quinta e apparve il salotto di John, ancora intatto. Mentre marito e moglie guardavano, le fiamme si ingolfarono nella stanza. Le poltrone di cuoio si contrassero come cose vive nel calore del fuoco. (…) E infine le fiamme avvolsero ogni cosa, il tetto di ardesia precipitò, travi e assi crollarono da ogni parte”.
Il libro conseguì dei modesti consensi. Intanto, nel 1930, John Steinbeck aveva sposato Carol Henning e si era trasferito a Pacific Grove in California. Durante i primi anni di matrimonio, i giovani sposi incontrarono parecchie difficoltà economiche, tanto che la famiglia dello scrittore li aiutò più volte.
La moglie Carol lo sosteneva come poteva, battendo a macchina le sue bozze ma anche discutendo con lui i suoi scritti dei quali soppesava la moralità, un aspetto del lavoro di suo marito per lei fondamentale.
Intanto Steinbeck non demordeva, lavorava molto su se stesso e la sua scrittura, assorbiva la realtà della gente che viveva intorno a lui un triste momento economico. Il 1929 era un doloroso ricordo, ancora vivo nell’animo di tutti; la fame e la disoccupazione erano spettri che molti avevano ospitato in casa.
Ma in questi anni fu colpito anche da gravi lutti: nel 1934 sua madre, Olive Hamilton, così tenace e combattiva, donna tutta d’un pezzo, morì; l’anno seguente morì anche il padre, Ernst. La loro perdita tracciò un confine tra il prima e il dopo, fra un passato dove la presenza dei genitori era un punto fermo e un futuro che si disegnava incerto in un mondo dove si sarebbe accorto d’essere più solo. Il passato, i nonni, la verde Irlanda e i pionieri erano sempre più lontani, eppure le radici restavano ben piantate per terra, mentre le idee e i pensieri svettavano verso l’alto.
In quel periodo la North American Revue pubblicò alcuni suoi racconti. Pascal Covici, della casa editrice Friede fu colpito e affascinato da questo giovane autore e dal suo romanzo “I Pascoli del Cielo”. Ma dopo aver letto anche “Pian della Tortilla”, fra l’altro rifiutato da diversi altri editori, lo legò definitivamente a sé e alla casa editrice Viking Press, poiché la Friede nel frattempo era fallita.
Finalmente, nel 1935, grazie al romanzo “Pian della Tortilla”, Steinbeck raggiunse la fama. Per scriverlo, come si è detto, Steinbeck era partito dalla sua realtà di Monterey, che gli scorreva nel sangue sin dall’adolescenza. Il successo immediato del romanzo lo elevò allo status di scrittore affermato e ricercato. “Pian della Tortilla” segnò una svolta nella sua carriera di romanziere e, se in questo primo libro divenuto popolare aveva mostrato una capacità di essere ironico, allegro, dirompente, con le opere successive apparve anche il suo secondo volto, tragico, realistico e furiosamente arrabbiato.
Nel breve romanzo “Uomini e topi” (Of Mice and Men) del 1937, quasi un lungo racconto che gli fu ispirato da una fuga, Steinbeck tratteggia con grande maestria il mondo agricolo dell’Ovest.
Sin dalle prime righe, le descrizioni del paesaggio sono delicate e poetiche; al lettore sembra di scorgere, proprio davanti a sé, i lunghi rami dei salici dalle fronde spesse e lacrimose lambire dolci pendii punteggiati dalle corolle dei fiori. Pare di sentire la canzone del fiume, che corre sempre in avanti e, come la vita dell’uomo, non ha nessuna possibilità di fare ritorno.
“Su una riva del fiume i pendii dorati del contrafforte salgono dolcemente ai monti Galibán forti e rocciosi; ma a valle l’acqua è orlata di piante: salici verdi e novelli a ogni primavera, ingombre le forche dei rami bassi dal tritume della piena invernale, e sicomori dalle candide e screziate braccia penzolanti e dalle fronde arcuate sulla corrente.”
Ci sono i sentieri ombrosi, i fiori sgargianti, i conigli morbidi e pasciuti che corrono impauriti a nascondersi, c’è una pozza profonda quanto basta per trovare il giusto refrigerio al caldo estivo. Steinbeck descrive una pace così totale che quasi inganna chi legge e lungo il viottolo ben disegnato fra i boschi sembra di vedere spuntare George e Lennie. La poesia dei luoghi è profanata dal loro entrare in scena; il primo è descritto come un giovane “… basso e vivace, fosco in viso, dagli occhi impazienti, dai tratti taglienti e vigorosi. (…) mani piccole e forti, braccia smilze, naso sottile e ossuto”, il secondo, Lennie, è invece “… un giovanottone dal viso informe, occhi grandi e pallidi, spalle ampie e cascanti …”.
Sono dei semplici braccianti e Steinbeck ne aveva conosciuti molti così, uomini che si spostavano da un ranch all’altro, che guadagnavano poco lavorando duramente, che bevevano o si giocavano i pochi dollari racimolati con fatica, che non avevano una famiglia, una casa e spesso non erano padroni neppure della propria persona.
In “Uomini e topi” George e Lennie si coalizzano. George s’illude che, unendo le forze, potranno magari un giorno possedere un piccolo ranch tutto loro, dove nessun padrone avrebbe potuto obbligarli a lavorare come bestie.
Per Lennie, l’amico è tutto, è l’adulto di riferimento, perché egli, grande e grosso com’è, è un pericoloso bambinone senza coscienza. Attirato da tutto ciò che è morbido e caldo, cuccioli, conigli, topi o giovani donne, il pericoloso gigante dà loro una morte inconsapevole.
Le pagine del romanzo trasudano il fetore della morte che si contrappone al profumo dei pendii erbosi e al delizioso e ameno paesaggio boschivo, così sottilmente affascinante e innocente.
George e Lennie, sin dal loro primo apparire, recano già in sé la drammatica vicenda che li condurrà senza scampo a un epilogo tragico. Tutto s’incastra perfettamente, ogni azione che lo scrittore mette in scena è giustificata, senza neppure una parola o un dialogo di troppo. Lennie trasmetterà la morte con quelle sue mani enormi e paurose, George non riuscirà a fermarlo e a proteggerlo. Gli eviterà un linciaggio, ma il prezzo pagato sarà per George altissimo, tanto da non riuscire a pareggiarlo in una vita.
La moglie di Curley, alla quale Steinbeck non attribuisce un nome proprio, è la vittima perfetta. Giovane, bella e insoddisfatta, è la manzetta, la sposa, la madama, è una ragazza annoiata, che si è sposata con l’idea di emanciparsi grazie al matrimonio. Incapace di badare a se stessa, è solo avvenente e quindi certa che tutto le sia dovuto.
Quante ragazze così deve aver conosciuto Steinbeck! Giovani donne che, in quell’angolo dell’America rurale degli anni Trenta, sognavano Hollywood, le fotografie sui giornali e il facile amore di un uomo bello e ricco. Il riscatto da un’esistenza fatta di niente passava spesso per l’illusione di un matrimonio, in molte occasioni riparatore, che il più delle volte portava una prole numerosa e mille problemi quotidiani.
“La moglie di Curley spuntò dall’estremità dell’ultimo stallo”. Poi, sopraggiunta alle spalle del timido Lennie, inizia a parlare di sé: “… un’altra volta ho incontrato uno che era in cinematografia … Diceva che mi avrebbe fatto entrare in cinematografia. Diceva che avevo il tipo ingenuo. Appena tornato a Hollywood mi avrebbe scritto qualcosa”. Guardò attentamente Lennie per vedere se gli faceva effetto. “Quella lettera non mi è mai arrivata” continuò. “Credo ancora che sia la mamma che me l’ha presa. Ebbene, io non volli più saperne di stare in un buco simile dove non potevo fare niente né diventare qualcosa e dove vi sequestrano le lettere … Allora sposai Curley … Non voglio bene a Curley. Non è simpatico … Avrei potuto entrare in cinematografia e avere dei bei vestiti … tutti quei bei vestiti che portano”.
Con lei si spegne un sogno e la morte, grazie alla giovane, s’illude d’essere meno crudele adornandosi con la sua fresca bellezza.

Leggendo la produzione di Steinbeck appare evidente che la donna, per l’autore americano, è un essere istintivo che in sé cela il mistero della riproduzione e il seme della distruzione. Egli affida al genere femminile il grande potere di mantenere integra e intatta la famiglia o nella accezione negativa di annientarla.
Ma la donna è indispensabile all’uomo e viceversa, perché entrambi appartengono a un disegno universale dove l’amore li innalza attraverso una comunione spirituale che affonda le radici nel buio delle origini. Attraverso la donna, l’uomo rinasce una seconda volta e, grazie alla sua forza, anche l’uomo acquisisce consapevolezza e aumenta il suo valore.
Nell’immaginario dello scrittore la donna, fisicamente, è dea della madre terra e della luna, il suo fisico è forte, i fianchi larghi e riproduttivi, il seno grande e materno, le gambe robuste.
Fra le diverse figure femminili tratteggiate da Steinbeck, la moglie di Curley appena citata distruggerà, con il suo comportamento e poi attraverso la sua morte, l’equilibrio del ranch e innescherà altre tragedie. George, Lennie, Crooks, lo stesso Curley non saranno più gli stessi dopo la sua fine.
In “Furore” (The Grapes of Wrath), la signora Joad è il perno della sua famiglia, tutti dipendono dalla sua forza e traggono potere dalla sua presenza. Quando i Joad vorrebbero dividersi la donna è subito pronta a intervenire e a non permettere che la famiglia si sfasci: “Allora la mamma assunse un’espressione di ostinatezza che nessuno le aveva mai visto in volto, ma disse con la massima calma: “E io ti dico che l’unico modo per farmi venire è picchiarmi. Ma son pronta a difendermi senza lacrime, senza implorazioni” (…) Tutta la famiglia assisteva immobile alla ribellione della mamma. Gli occhi di tutti si posarono sul babbo, aspettandosi di vederlo montare in bestia, di vedere le sue mani inerti serrarsi a pugno. Ma l’ira non traboccò, le mani restarono inerti. E di colpo il gruppo capì che la mamma aveva vinto. La mamma anche lo capì. Perché parlò a Tom con dolcezza, ma con gli occhi ancora duri: “E’ un’idea che ti è venuta senza riflettere. Non ci resta più niente al mondo, salvo l’unione della famiglia”.
Sempre in “Furore”, nelle pagine che chiudono il libro, la mamma e sua figlia, Rosa Tea, salvano un uomo ormai sfinito. E nel sorriso misterioso di Rosa Tea, che sta facendo rinascere quell’uomo, c’è tutta l’essenza femminile e la capacità di dare vita e fiducia all’altro, una dote legata intimamente all’anima di ogni donna.
Al contrario ne “La valle dell’Eden”, Cathy, moglie di Adam Trask è distruttrice e perversa.
“Ella non gli diede modo di parlare. “Me ne sto andando “. “Cathy, cosa vuoi dire?” (…) “Io me ne vado …”. “i bambini …” “Buttali in uno dei tuoi pozzi “. Adam urlò terrorizzato: “Cathy, tu sei malata. Non puoi andartene … e lasciarmi solo!”. “Non posso farti niente. Qualsiasi donna può farti tutto quello che vuoi. Sei uno scemo”.
A lei si contrappongono la severità e l’autorevolezza di Liza Hamilton e l’immensa capacità di accettare il disegno divino, uniti alla fiducia che Liza ripone nella certezza di un premio ultraterreno. Così, alla morte della figlia Una, Samuel Hamilton è annientato ma Liza “con il suo spirito di accettazione poteva affrontare la tragedia”.
Ancora ne “La valle dell’Eden”, anche la giovane Abra reca in sé la salvezza per Cal che le dice: “Credo che le ragazze non abbiano paura di quasi nulla”, riconoscendo d’istinto una forza sovrannaturale alle donne e, senza rendersi conto, nutrendosi della forza di Abra, si riscatterà.
Un’altra figura forte e materna è Alicia Whiteside, una delle eroine de “I Pascoli del Cielo”. Alicia, rimasta miracolosamente incinta per la seconda volta, rivela al marito: “I medici non sanno nulla. Le donne ne sanno molto di più dei medici sul proprio conto”. E Richard riflette fra sé: “Le donne hanno un grano di divinità in loro. La natura ha dato loro una conoscenza sicura perché la razza possa moltiplicarsi”.
Per Steinbeck, la famiglia è la cellula che porta alla costruzione di una società più complessa. Far parte di essa comporta dei doveri e il rispetto della moralità collettiva. Perché la società giudica e può distruggere la famiglia o uno dei suoi componenti che agiscano al di fuori delle regole. Gli stessi figli sono i veri testimoni della riuscita della famiglia. In molte delle sue pagine Steinbeck mostra al lettore il suo background affondato nel puritanesimo degli avi; nelle sue parole risaltano l’influenza della religione, la lotta fra il bene e il male, i valori morali, l’amore quale principio di tutto.
Anche l’amicizia è un sentimento ben rappresentato nell’opera di Steinbeck. L’amicizia crea il gruppo, solidifica le relazioni, funge da collante nelle società, è motivo di rallegramento perché consola e aiuta. C’è solidarietà fra gli abitanti de “I Pascoli del Cielo”, fra i derelitti che i Joad incontrano in “Furore”, fra i paisanos di Monterey. E poi c’è l’amicizia intima e disperata fra George e Lennie, di “Uomini e topi”, l’affetto profondo fra Li e Adam Trask, ne “La Valle dell’Eden”, e quella reale che fu di Steinbeck con il dottor Ricketts. E se l’uomo uccide sempre ciò che ama, è anche vero che grazie a un amico l’uomo si sente subito più forte e protetto.
Nel suo modo di giudicare, però, Steinbeck non condanna mai l’istinto, non è emarginabile chi ruba per fame o chi commette un peccato carnale, e il male non è a senso unico, anche un uomo buono può uccidere, l’importante è non dimostrare bassezza e viltà. Nel suo sentire l’uomo deve trovare la felicità nella sua vita, senza rimpianti; Steinbeck, se ha una fede ben radicata, la ripone senz’altro nell’Uomo.

Nella profonda sensibilità dello scrittore americano la poesia emerge senza fatica alcuna, sia nelle parti descrittive sia nelle parole dei suoi personaggi. Per esempio, nel romanzo del 1936, “La Battaglia” (In Dubious Battle), che narra la vicenda di due agitatori che vogliono prendere le difese dei lavoratori stagionali sfruttati dai grandi proprietari terrieri, uno dei suoi personaggi, Burton, schierato dalla parte degli scioperanti, fra l’altro confessa: “I miei sensi sono tutto quello che ho”.
Questa è una delle frasi che rappresentano molto sinteticamente lo scrittore e il suo lirismo, la sua grande capacità di trascrivere ciò che percepiva; è molto più sottile e complesso dare vita a quanto si sente intimamente che solo romanzare ciò che si vede. I risultati sono narrazioni ricche di immaginazione, humor e drammaticità, i personaggi diventano vivi e indimenticabili, i sentimenti sono reali e travolgono il lettore perché risultano vicini al sentire comune. È grande anche la capacità di Steinbeck di restituire alla pagina la memoria olfattiva, o di descrivere la natura nei suoi più svariati aspetti, come se fosse un pittore intento a ricreare un paesaggio appena visto.
Charles Dickens si preoccupava di divertire e appassionare il lettore e lo stesso desiderava Steinbeck che tanto aveva amato lo scrittore inglese. Ormai già autore di successo dichiarò: “Ho tratto sempre molto piacere dalla stesura dei miei libri e ci tengo a conservarmi questo piacere a ogni costo!”.
Per inchiodare il lettore alla pagina Steinbeck narrava storie che avevano una grande attinenza con la realtà, come se lo scrittore costruisse un solido telaio dove poi tessere la trama.
I paesaggi, le figure dei personaggi e gli ambienti sono descritti con cura maniacale, con mille particolari che invece di annoiare, per la loro acutezza rendono viva la pagina. È come se, inconsapevolmente, Steinbeck scrivesse già per il cinema, la settima arte, che tanto attinse dalle sue opere, come dimostrano l’uso e la notevole padronanza dei numerosi flashback presenti nei suoi romanzi.
Steinbeck fu un maestro nel creare suspense. Attraverso le sue storie si arriva sempre a essere sul punto di scoprire, comprendere o immaginare cosa succederà e invece la narrazione si interrompe e Steinbeck tiene nascosto al lettore il fatto essenziale che è suggerito attraverso indizi fisici come l’accadimento di un nuovo fatto, o astratti, come il pensiero e non l’azione di un personaggio. La reazione delle varie figure a quanto accade loro è un buon inizio per capire come si evolverà la vicenda ma indovinare il seguito è arduo.
Steinbeck aiuta molto il lettore incarnando la parola e legandola alla realtà d’ogni uomo. Tornando a “Uomini e topi”, basta leggere la pagina dedicata all’uomo di colore Crooks per comprendere non solo la sua figura ma tutta la drammaticità del razzismo. Creando delle circostanze e riportando degli atteggiamenti, lo scrittore fa emergere la triste solitudine di Crooks in maniera così cruda e realistica da impressionare ogni cuore, soprattutto quando una luce di speranza è pesantemente schiacciata e distrutta dalla storia che va avanti senza pietà.
“(…) Supponete di non avere nessuno. Supponete di non poter entrare nel dormitorio e giocare alle carte solo perché siete nero. Che cosa direste allora? Supponete di essere costretto a stare seduto qui leggendo libri. I libri non servono a niente. A un uomo occorre qualcuno … che gli stia accanto. Un uomo ammattisce se non ha qualcuno …”. La solitudine schiaccia il povero Crooks, ma ancora di più lo annienterà la perduta illusione di aver trovato in George e Lennie degli amici con i quali sconfiggere un’amara vecchiaia.

“Ho una terribile paura della popolarità. Essa ha ucciso tutti coloro che conosco … Io non sono uno scrittore popolare, anche se l’infatuazione recente lo lascia supporre …”. Così diceva Steinbeck dopo il successo del romanzo “Pian della Tortilla”.
Perché temeva quella popolarità che ogni autore di successo vorrebbe possedere? Non si è scrittori se non si è letti, il tempo rende un’opera eterna perché, pur essendo letta da diverse generazioni, non perde la sua universalità.
Ma diventare popolare spaventava Steinbeck forse perché non si sarebbe più sentito libero di raccontare a modo suo, temeva di restare condizionato dalla popolarità. Egli, che fra l’altro non andò mai d’accordo con i critici dai quali non si sentiva minimamente compreso, fu sempre uno scrittore libero e anche istintivo.
Non sopportava costrizioni di sorta e i suoi scritti, così vari, lo dimostrano. Alternava liricità a drammaticità, humour a disperazione senza un ordine apparente ma seguendo gli impulsi più intimi, le ispirazioni del momento, la materia umana che incontrava. Ripescava dentro di sé il suo vissuto che comprendeva anche chiunque avesse incontrato, perché sapeva di avere bisogno d’ogni espressione, caratteristica fisica o parola che potesse assorbire e riutilizzare.
Egli seppe crescere, perché l’esperienza e la maturità evolvevano la sua scrittura e leggendo le sue opere appare chiaro come cercasse di correggere i suoi limiti. Basta citare il troppo filosofeggiare di Joseph Wayne, protagonista del romanzo “Al Dio sconosciuto” (To a God Unknown), pubblicato nel 1933, che risulta falso e spinto dallo stesso Steinbeck che lo usa, in maniera piuttosto noiosa, per divulgare il suo pensiero.
Ma in tanti altri dialoghi Steinbeck è magistrale perché fa emergere la sua abilità nel riprodurre esattamente lo stile di ogni personaggio; la lingua parlata, i modi di dire, le espressioni che si possono leggere nei suoi romanzi e nei racconti rendono vive le pagine.
Quando George, in “Uomini e topi” si rivolge con forza a Lennie sottolineando la necessità che l’amico gli ubbidisca, pare proprio di vederlo, piccolo e magro, contrapporsi al gigantesco compagno di avventure che balbetta poche frasi.
“Adesso ti sei ricordato dove andiamo?”. Lennie trasecolò e poi dall’imbarazzo si nascose il viso contro le ginocchia. “Me lo sono dimenticato”. “Sangue di Dio” disse George rassegnato “Be’, ascolta, andiamo a lavorare in un ranch come quello di dove veniamo nel Nord”. “Nel Nord?” “A Weed”. “Ma sì. Ricordo. A Weed”. “Questo ranch dove andiamo è laggiù a un quarto di miglio. Entreremo dentro e parleremo col padrone. E ora ascoltami: io gli darò i fogli d’ingaggio, ma tu non devi dire una parola. Tu non hai che da startene tranquillo e non aprire bocca. Se si accorge che razza d’uno scemo sei, non ci dà nessun lavoro; ma se ti vede all’opera prima di sentirti parlare, siamo a cavallo. Hai capito?” “Sta tranquillo, George, ho capito”.
Anche il modo di dialogare e raccontarsi dei paisanos in “Pian della Tortilla” è irresistibile. In quelle frasi brevi, nelle storie raccontate vicino al fuoco o fra i boschi, emergono il carattere e l’anima dei compagni di ventura, proprio come se ancora continuassero a vivere per sempre a Monterey.
“Disse Pilon: “L’amore è una bella cosa. Non si può rimproverare a un uomo di correre dietro a una ragazza, ma una settimana è una settimana. Bisogna che la ragazza sia parecchio allegra per tener Danny via da casa una settimana”. Disse Pablo: “L’amore è come il vino. Poco fa bene. Molto fa male. Ho idea che Danny stia già male. Ho idea che si tratti di una ragazza un po’ troppo allegra”.

Proprio a Pacific Grove, dove Steinbeck si era trasferito nel 1930, lo scrittore aveva incontrato il biologo Edward F. Ricketts, un uomo di scienza ma anche un filosofo, che influenzò il suo modo di pensare e di raccontare; insieme condivisero una splendida e profonda amicizia condita da mille avventure.
Il pregio di Ricketts era di utilizzare la sua sapienza per dischiudersi alla vita e non per rifugiarsi in una torre d’avorio. Intelligente, entusiasta e vulcanico, Ricketts seppe coinvolgere e trascinare Steinbeck anche in alcune spedizioni, come l’esplorazione della baia di San Francisco, nel 1939.
Da parte sua, Steinbeck usò il suo amico in diversi romanzi: fu il dottor Phillips ne “Il serpe”, il già citato dottor Burton ne “La Battaglia”, Casy in “Furore” e Doc nel celebre “Vicolo Cannery”.
Si racconta che Ricketts non sempre era felice d’essere descritto nei romanzi del suo amico. Spesso curiosi e giornalisti gli chiedevano di rilasciare interviste ma egli non le concedeva volentieri.
Per entrambi, gli anni che andarono dal 1930 al 1948, molto prolifici per Steinbeck, rappresentarono un periodo fecondo e ricco di idee. Il continuo stimolo di due menti molto affini arricchì entrambi. Li separò la morte di Ricketts, avvenuta improvvisamente nel 1948 quando un treno investì la sua auto, proprio nelle vicinanze di Cannery Row, dove oggi un busto a grandezza naturale lo ricorda.
Ma nel 1939, quando Steinbeck pubblicò “The Grapes of Wrath”, arrivato in Italia nel 1940 con il titolo “Furore”, la tragica fine di Ricketts era inimmaginabile.
L’opera ebbe un travolgente successo e questo libro fu poi considerato il capolavoro dell’autore americano, fu il mare che raccolse tutta l’acqua portata dai fiumi della creatività di Steinbeck. Nelle oltre quattrocento pagine lo scrittore costruì una storia dove le conseguenze della depressione, l’ingiustizia, lo sfruttamento, la povertà, l’odio, il dolore, il razzismo, l’avvento della industrializzazione e l’abbandono dei campi accompagnano il lettore attraverso l’inferno di quei tristissimi anni che solo lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale e una violenta ripresa economica cancellarono.
Dopo il crollo del 1929, l’America non riusciva a riprendersi. In qualsiasi libro di storia si possono leggere i dati disastrosi di quegli anni; il sistema bancario era stato distrutto dagli stessi clienti che avevano ritirato i loro depositi, un quarto della popolazione era senza lavoro, il commercio con l’estero si era ridotto di un terzo, le industrie lavoravano al 40% della loro potenzialità e il 60% della popolazione viveva di stenti.
Franklin Delano Roosevelt, che iniziava il suo mandato in piena crisi, il 4 marzo 1933, durante la campagna elettorale aveva cercato di rassicurare i cittadini impegnandosi a cambiare il sistema. Lo ribadì anche durante il discorso d’insediamento alla Casa Bianca e da subito, insieme al Congresso, trasformò in legge tredici importanti provvedimenti, fra cui una legge d’emergenza per le banche, un’altra per salvare le industrie, ancora un’altra sulle ipoteche per la terra e mise fine al proibizionismo con la celebre battuta: “Penso sia arrivato il momento di bersi una birra”.
Lentamente l’economia ripartiva, ma l’agricoltura era stata distrutta dalla povertà dei contadini, dall’industrializzazione che avanzava, dai prezzi che crollavano, dalle tempeste di sabbia che distruggevano ogni cosa e, un milione di derelitti, stipando l’impossibile su ogni mezzo di fortuna, emigrò verso l’Ovest per raggiungere la terra promessa: le fertili valli della California.
Additati per la loro misera condizione, sfruttati dai grandi possidenti terrieri solo per brevi periodi, braccati dalla legge, i braccianti compresero ben presto come per loro non ci fossero speranze se non trascinarsi da una fattoria all’altra sino alla fine.
Una letteratura della crisi e quindi realista, sempre più vicina al sociale e all’idea del comunismo era quasi d’obbligo per gli scrittori dell’epoca che avevano assistito all’agonia del capitalismo.
A Steinbeck, che aveva vissuto sulla propria pelle la crisi dell’America, sembrò naturale fermare sulla pagina le tribolazioni dei più deboli, quei contadini sfiniti e cenciosi che si trascinavano lungo le interminabili strade che collegavano l’Est all’Ovest.
“Furore” si apre con la realistica narrazione dell’avanzare della siccità nell’Oklahoma. Sono pagine di grande maestria, dove Steinbeck descrive la forza della natura così superiore a quella dell’uomo tanto che potrebbe spezzare la volontà degli agricoltori; in successione arrivano il sole implacabile, una pioggia che sembra una beffa e poi l’impetuosità del vento che solleva in cielo la terra arida e polverizzata costringendo tutti a restare chiusi in casa, senza poter fare nulla. Quando la tempesta di sabbia si arresta, gli uomini guardano affranti il disastro ma nei loro sguardi si legge l’indomito coraggio di chi non vuole arrendersi e in qualche modo deve trovare la forza per andare avanti.
“Una notte il vento impazzò, zappò furiosamente la terra attorno alle radici del granoturco e il granoturco smise di lottare (…) L’alba sorse ma non il giorno. Nel cielo grigio apparve un sole rosso, un fioco cerchio rosso che emanava una scialba luce crepuscolare (…) Uomini e donne stavano tappati in casa e quando dovevano uscire si annodavano una pezzuola davanti alla faccia per filtrare la polvere (…) Ora l’aria e la polvere erano mescolate insieme in parti uguali. (…) A metà della notte il vento si allontanò e lasciò il paese in pace, perché l’aria densa di polvere smorzava ancor più della nebbia ogni rumore d’intorno. Le creature umane, coricate nei loro letti, udirono che il vento era caduto: fu il cessare del vento a destarle …”.
Nel romanzo, riprendendo lo scrittore americano John Dos Passos, Steinbeck inserisce con cadenza regolare dei suoi commenti, reali ed efficaci. Grazie a essi emerge la situazione drammatica degli umili. Le difficoltà della famiglia Joad, la protagonista del romanzo, diventano le difficoltà di un mondo dove gli ultimi sono schiacciati e sottomessi fra l’indifferenza morale di coloro che fingono di non sapere. Sull’opera, davvero poderosa, aleggia il furore che tanta amoralità e indifferenza sollevano.
I Joad sono una famiglia semplice, abituata a lottare e a non aspettarsi nulla dall’esistenza se non una dignitosa povertà. La trama si snoda nel corso di un viaggio effettuato con un autocarro, piuttosto malmesso, che corre lungo la celebre Highway 66, dall’Oklahoma alla terra promessa della California.
I protagonisti sono spinti verso Ovest, non più selvaggio West, dal miraggio di trovare un lavoro ben pagato, una terra facile da coltivare, un clima meraviglioso. Si ritroveranno, con tanti altri disperati a inseguire un sogno maledetto.
Nel romanzo, attraverso il linguaggio semplice dei suoi protagonisti, Steinbeck riuscì a far rivivere la realtà di quegli anni disperati. Egli ebbe la capacità e l’intuizione di fotografare quel periodo di storia americana che, grazie al suo libro, vivrà per sempre. Non è andata perduta la sofferenza di quelle migliaia di persone perché sono state elevate a memoria, non sono scomparse o inghiottite nel nulla e il merito è di Steinbeck.
I Joad sono il simbolo eternato delle famiglie che abbandonarono le loro radici per un bluff, spinti come furono da coloro che propagandavano il facile, sicuro e ricco lavoro in California.
Attraverso il loro viaggio si ha la percezione fisica dell’immensità dell’America, sembra di vedere la Highway 66 attraversare infinita il Paese, un nastro d’asfalto interminabile solcato da automezzi carichi sino all’inverosimile, guidati da uomini dal volto senza età e segnato dalla fatica di vivere.
Prima ancora del viaggio è toccante la descrizione delle pagine che lo precedono e che narrano del ritorno a casa del giovane Tom Joad. Nessuno lo attende perché è difficile sia scrivere di un ritorno sia leggere una lettera, come suo padre più volte gli aveva detto:
“… quello che non si può dire a voce, è inutile farlo dire dalla matita”.
A Tom basta la convinzione che la famiglia sarà là ad aspettarlo, è certo dell’amore e della gioia che proveranno nel rivederlo. La voce dell’anima gli suggerisce che ogni cosa sarà come l’ha lasciata.
Tom torna dal carcere; giovanissimo, ha ucciso un uomo per legittima difesa durante una rissa scoppiata a causa di una ragazza. La prima persona che incontra e riconosce è il reverendo, anzi ex-reverendo, Jim Casy. Il loro ritrovarsi e quanto si dicono rappresentano il seme di ciò che accadrà: la lotta dell’uomo contro l’uomo, la lotta dell’uomo contro gli elementi.
Quando Tom, accompagnato dal reverendo, giunge nei pressi di quella che fu la sua casa prova un tuffo al cuore.
“La baracca di legno sfondata, le finestre cieche della facciata, il pozzo di cemento privo della pompa …”.
Davanti al piccolo podere distrutto Tom non sa cosa pensare e lo stesso Casy ammette che se fosse ancora un predicatore direbbe che: “… il braccio di Dio ha colpito …”.
Dopo aver scoperto che i suoi si sono riuniti da uno zio con l’intenzione di recarsi all’Ovest, Tom li raggiunge.
È commovente l’incontro fra il ragazzo e la madre che rappresenta il fulcro della famiglia, colei che, grazie a una calma biblica, tiene uniti i suoi cari e che quindi non può permettersi di vacillare o provare disperazione.
Rivedendo il figlio, la donna, magnifica nel suo ruolo di dea infallibile, è sopraffatta dall’emozione e vacilla. Tom, diventato lontano da lei un uomo forte e sicuro di sé, le fa smarrire la sua imperturbabilità. Guardando Tom, la sua gioia aveva un’espressione quasi dolorosa.
Aver ritrovato Tom dà uno slancio alla famiglia che parte sicura di conquistare la California.
Curioso notare come lo strano autocarro che li porterà lungo la Highway 66 diventi da subito il nuovo focolare della famiglia, il luogo dove i componenti si raccolgono a discutere e a ricordare e dove sono riposti i loro averi. Il passato, che ancora non è tale ma è lì davanti a loro dimostrato dalla vecchia casa, dai campi e dai luoghi noti, sembra agli occhi dei fuggitivi già morto.
Partire è una necessità impellente, rompere con un’esistenza diventata insostenibile è l’unica soluzione rimasta. Solo i nonni, anziani e malati, soffriranno sino alle loro radici per l’estirpazione violenta che subiranno, come se non avessero più linfa per attecchire su una nuova terra.
La storia dei Joad, semplice ma pregna d’amore che scorre come un fiume ora quieto ora in piena in un’America reale e disfatta, è il romanzo più alto di Steinbeck. È la realtà narrata da un maestro che ha sensibilità e creatività, capacità di entrare nel cuore degli altri, di mettersi nei panni di più personaggi sapendoli rappresentare come se fossero davanti al lettore in carne e ossa. È vivo Tom, con i suoi ragionamenti, il carattere impetuoso e impulsivo, è viva la sua mamma, così materna, forte e coraggiosa come in realtà lo sono spesso le donne, sono vivi i fratelli più piccoli, bambini che si devono arrangiare, che sopportano la fame e si adeguano alle decisioni non sempre facili degli adulti, è viva la sorella di Tom, Rosa Tea, così giovane e desiderosa d’amore e così delusa dall’amato, è vivo l’ex predicatore Casy, con i suoi dubbi, la cultura profonda, i mille ragionamenti e il coraggio dimostrato.

È stato un gran merito di Steinbeck riuscire a tratteggiare le numerose figure con tanta abilità. Il lettore ne è coinvolto emotivamente, vorrebbe quasi salire sullo sgangherato autocarro dei Joad per dare loro una mano o un consiglio; i loro dolori sono i nostri come le sconfitte, la rabbia, la fame, l’impotenza verso un destino che si accanisce implacabile contro i deboli.
Si stenta a dimenticare i Joad e a uscire dalla loro vita; si vorrebbe vederli sistemati, felici dopo tanto peregrinare. Così come tante volte, anche per noi stessi, vorremmo un po’ di pace.

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Erano stati davvero molti i cambiamenti che erano avvenuti nella vita di Steinbeck dalla pubblicazione di “Tortilla Flat”.
Steinbeck era cresciuto come scrittore, la sua maturità si era fatta piena, di lui si erano accorti Hollywood e i lettori ma l’uomo non desiderava le luci della ribalta. Steinbeck era una persona schiva, timida e incapace di gestire la gloria. Egli desiderava essere libero, muoversi senza essere riconosciuto, voleva l’anonimato, aborriva l’idea di essere annoverato fra i letterati e accettava i premi con modestia.
Il desiderio di restare nell’ombra creò intorno alla sua figura un alone di mistero e di fascino. Agli occhi del pubblico diventava una figura emblematica, la sua corporatura piuttosto grossa lo rendeva simile a un gigante tenero e buono, i suoi limpidi e disarmanti occhi azzurri erano famosi quanto i baffi irsuti che gli tagliavano il viso.
Se si dovesse paragonarlo fisicamente al personaggio di uno dei suoi libri, questi potrebbe essere, il massiccio Lennie di “Uomini e topi”.
In verità, Steinbeck era un po’ orso e solitario, amava frugare in se stesso, ascoltare la sua voce interiore, sentirsi creativo ed essere apprezzato per le sue qualità di narratore. Steinbeck, intelligente e sensibile, ci mise un po’ a smuovere la corazza della modestia e del ritegno, come se apparire in pubblico o peggio ancora parlare di sé nel corso di un’intervista, fosse come subire una violenza. Egli si riteneva solo uno scrittore e quindi non comprendeva come la gente comune si potesse interessare anche alla sua vita privata, alla sua persona e non esclusivamente alle sue opere.
Ma lentamente Steinbeck mutò il suo punto di vista. Emerse dalla solitudine in cui si era crogiolato per gran parte della vita, imparò che era piacevole essere ascoltato e si accorse che i numerosi fan con la loro adorazione accarezzavano il suo amor proprio.
Quando lo desiderava poteva sempre ritrovare la solitudine fra la natura ancora selvaggia della sua California magari imbarcandosi con l’amico Ricketts in qualche avventura lungo la costa del Pacifico.
Il romanzo “Furore” aveva scatenato una ridda di elogi e critiche furiose. Era stato amato e odiato, innalzato a capolavoro e dileggiato. A Salinas, la sua città natale e teatro di un violento sciopero nel 1936 fra i proprietari terrieri e i lavoratori addetti all’imballaggio dell’insalata (all’epoca coltura importantissima), il romanzo fu bruciato e bandito da alcune biblioteche non perché nel libro fossero riconoscibili delle persone ma perché Steinbeck aveva denunciato al mondo una realtà che evidenziava l’annientamento di una classe sociale. Nonostante questo, nel 1939 “Furore” vinse il Pulitzer; nello stesso anno l’“Istituto Nazionale delle Lettere e delle Arti” elesse Steinbeck fra i suoi membri.
I romanzi “Uomini e topi” e “Furore” diventarono anche film di successo; il primo uscì nel 1939 diretto da Lewis Milestone e il secondo nel 1940, diretto da John Ford (Nel 1992 il regista Gary Sinige girò una nuova e valida pellicola tratta ancora da “Uomini e topi” con John Malkovich nella parte di Lennie).
Grazie ad Hollywood migliaia di dollari iniziarono a piovere nelle tasche di Steinbeck; egli era lanciato nel firmamento delle star e soprattutto era consapevole d’essere ormai diventato un personaggio pubblico e di avere quindi delle responsabilità, perché il suo comportamento, le sue parole e i suoi scritti sarebbero sempre stati sotto i riflettori.
Nel 1942 il suo matrimonio con Carol Henning finì e l’anno seguente si risposò con la cantante Gwendolyn Conger.
Intanto l’Europa era nel pieno della guerra che ben presto coinvolse anche l’America. L’aviazione americana chiese a Steinbeck di collaborare ed egli accettò. Gli fu chiesto di scrivere un opuscolo propagandistico e nacque così “Sganciate le bombe” (Bombs Away), molto simile a un reportage, per il quale si rifiutò di percepire i diritti d’autore e che conobbe un percorso insolito.
“Bombs Away” era destinato solo ai paesi di lingua inglese ma capitò fra le mani di un giovane professore francese, A. J. Axelrad, che si trovava ad Algeri impegnato a lottare fra le fila delle “Forze Libere”. Axelrad tradusse il reportage nella sua lingua e lo fece circolare clandestinamente in Francia, portando una ventata di speranza sulla futura sorte della guerra.
Non era il primo scritto di Steinbeck inerente alla guerra, infatti, nel 1942 scrisse anche “La luna è tramontata” (The Moon is down), un romanzo ambientato in Norvegia e che racconta dell’invasione militare subita da questo stato. La morale del libro è che non è possibile conquistare un paese contro la volontà del popolo. L’uccisione del sindaco di Orden, il nome della località dove Steinbeck ambientò il suo libro, si rivelerà un crimine inutile perché se è possibile assassinare un uomo, non si può uccidere quello che rappresenta, in questo caso il sindaco incarna l’ideale di libertà dei suoi concittadini.
Anche questo romanzo, stampato clandestinamente dalle Editions de Minuit ebbe nella Francia occupata un successo clamoroso e il nome di Steinbeck era ormai associato all’idea di libertà dal giogo nazista. Per questo, quando nel 1945, ormai in una Francia liberata, fu pubblicato “Furore” dalla casa editrice Les Lettres Françaises, il trionfo fu completo e annunciato.
Nel 1943, poco dopo il secondo matrimonio, Steinbeck era partito alla volta dell’Inghilterra come corrispondente di guerra. Spostandosi anche in Africa e in Italia, resterà lontano dagli Stati Uniti all’incirca sei mesi e i lettori del “New York Herald Tribune” leggeranno i suoi indimenticabili reportage dal 21 giugno al 10 dicembre, articoli che metteranno sempre al centro l’uomo e non il soldato.
Dopo essere rientrato in America, nel 1945 Steinbeck pubblicò “Vicolo Cannery” (Cannery Row), un romanzo ricco di humour, un po’ bohemien, dove si respira un’atmosfera surreale nella Monterey sempre cara allo scrittore.
È una storia divertente che ebbe un discreto successo ma già allora si intuiva che “Vicolo Cannery” era un libro dell’attesa, nell’aria c’era qualcosa di nuovo.
A fine conflitto mondiale, mentre il mondo si rimboccava le maniche nel tentativo di guardare avanti, Steinbeck era un uomo ancora giovane che aveva già avuto fama e denaro.
All’epoca aveva solo quarantatré anni, era nel pieno della maturità, sarebbe dovuto essere soddisfatto di se stesso ma era consapevole di come il pubblico fosse ancora in attesa di altri suoi libri.
I critici lo osteggiavano, lo giudicavano con un certo disprezzo uno scrittore popolare ed egli, esasperato dalle stroncature, si dimostrava astioso nei loro confronti.
Probabilmente si chiedeva che cosa ancora volessero da lui o perché dovesse di nuovo, dimostrare di essere grande e arrivato.
Nel 1945, nonostante le numerose indiscrezioni lo avessero dato vincente, non gli era stato assegnato il Nobel per la letteratura, andato alla poetessa cilena Gabriela Mistral; anche negli anni successivi si continuò a fare il suo nome, come nel 1949 quando il Nobel fu vinto da un altro grande autore americano: William Faulkner.
Sul piano personale, nel 1948, come già accennato, morì il suo grande e insostituibile amico Ed Ricketts. Nello stesso anno divorziò di nuovo, ma questa volta c’erano anche due figli: Thomas, nato nel 1944, futuro scrittore e sceneggiatore e John IV, nato nel 1946 che diventerà giornalista e scrittore, ma si spegnerà a soli quarantaquattro anni, nel 1991.
La vita è come un fiume che bisogna percorrere contro corrente; ci sono dei momenti in cui sembra impossibile avere nuove idee, ritrovare l’entusiasmo per andare avanti e avere nuovi desideri.
L’esistenza di Steinbeck aveva avuto una svolta, egli desiderava lasciarsi il passato alle spalle e provava il desiderio di viaggiare, di conoscere il mondo, di rinnovarsi e di abbandonare le sue abitudini sedentarie.
Nel 1950 si sposò di nuovo con Elaine Anderson, una famosa attrice scomparsa nel 2003, che gli starà vicino sino alla fine.
Dopo “Vicolo Cannery”, nel 1947, uscì “La perla” (The Pearl) e, nello stesso anno fu girato anche il film.
“La perla” è la storia molto triste di Kino, di sua moglie Juana e del piccolo Coyotito. Il figlioletto, morsicato da uno scorpione, è in fin di vita e i suoi genitori hanno bisogno urgente di denaro. Come per un segno del destino, Kino pesca un’ostrica che contiene una bellissima perla, così perfetta da essere definita dagli indiani “la perla del mondo”. Tanta bellezza suscita purtroppo altrettanta cupidigia, la famigliola è indotta in tutti i modi a venderla per una modesta cifra simbolica.
Allora Kino, che si era illuso di poter avere del denaro e migliorare la sua vita, è costretto a fuggire con i suoi cari per nascondersi sulle montagne. In seguito, vedrà il suo bambino morire ucciso da un colpo di fucile; con la moglie tornerà in riva al mare, dove ributterà fra le onde la magnifica perla, concludendo così una storia che è simile a una parabola, dove l’uomo soccombe sopraffatto dalla cupidigia senza potersi difendere.
Nel 1947 uscì anche il romanzo “La corriera stravagante” (The Wayward Bus), un curioso palcoscenico dove la vita mostra, attraverso i suoi personaggi bloccati da un’inondazione, l’amore e la morte, la generosità e la cupidigia, la paura e il coraggio. Nella tragica avventura che unisce i viaggiatori della corriera stravagante, le personalità si elevano o si disintegrano, in quella rappresentazione infinita che è la vita.
Ma fu nel 1952 che Steinbeck, da molti considerato ormai finito, pubblicò “La valle dell’Eden” (Est of Eden) che diventerà un clamoroso successo editoriale, accostabile al long seller di Margaret Mitchell “Via col vento”. Il poderoso romanzo fu salutato dagli ammiratori come un ritorno di Steinbeck alla sua grande capacità di narratore ma i critici lo stroncarono, compreso Elio Vittorini, che lo definì un insulso polpettone, un estremo e non riuscito tentativo, da parte di Steinbeck, di affermarsi come scrittore universale.
Ma il pubblico lo premiò e lo dimostrò anche il successo del bel film tratto dal romanzo e diretto da Elia Kazan che lanciò come attore un giovanissimo e affascinante James Dean, nella parte di Caleb, uno dei due giovani figli di Adam Trask. Fu proprio grazie a questo film che Dean, nel ruolo di adolescente ribelle e inquieto, divenne l’idolo dei giovani americani.
La storia delle due famiglie, gli Hamilton e il clan di Adam Trask, si dipana dal 1860 sino agli anni della Prima Guerra Mondiale e, come scrisse anche Steinbeck, attraversa la linea simbolica di un Ottocento dal sapore già antico e un Novecento foriero di fallaci lusinghe.
Ecco le parole di Steinbeck: “Il libro, come vedete, ha toccato un gran confine cioè il 1900. Altri cento anni erano stati macinati e rimescolati, e quello che era successo era così ingarbugliato per via di come la gente voleva che fosse, più ricco e pieno di significati quanto più era indietro col tempo. A sentir qualche libro di memorie era il tempo migliore che mai avesse risciacquato il mondo, il tempo antico, il bel tempo antico, dolce, allegro, semplice, come se il tempo potesse essere impavido. I vecchi, che non sapevano se avrebbero sorpassato col loro passo malfermo il confine del secolo, lo aspettavano con un senso di disgusto. Perché il mondo cambiava, e la dolcezza se n’era andata, e anche la virtù. (…) Non so come sarà negli anni che verranno”.
Al centro del libro c’è dunque l’Uomo che rivela i mille volti, le migliaia di sfaccettature che, come in un diamante purissimo, brillano e si specchiano l’una dentro l’altra moltiplicandosi e rendendosi infinite.
I personaggi di Steinbeck rappresentano i diversi aspetti dell’umanità; ma il male è sterile mentre il seme gettato da un animo nobile avrà sempre la possibilità di essere fecondo e mutarsi in frutto.

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Nelle sue opere, Steinbeck fu così mutevole da sfuggire a ogni tentativo di classificazione; di volta in volta fu un autore dall’aspro realismo, fu impegnato e dedito alle questioni sociali, fu naturalista, picaresco, ironico, dissacrante o come scrisse R. Las Vergnas in “Nouvelles Littéraires”, il 1° novembre del 1962, Steinbeck fu e resterà un arcobaleno delle lettere.
E questa definizione sembra calzargli a pennello perché egli sfuggì sempre a ogni etichetta, quale scrittore ricco di una creatività infinita, Steinbeck amò visceralmente scrivere. La sua produzione varia e ricca lo dimostra senza ombra di dubbio, la sua capacità di occuparsi di letteratura, romanzi e racconti, di teatro, di sceneggiatura, di reportage, lo annovera fra quelle personalità poliedriche che brillano come stelle solitarie fra milioni di luci fioche e lontane.
La sua immensa passione per la scrittura emerge ancora oggi, a quasi mezzo secolo dalla sua morte e basta leggere i suoi libri per risvegliarla e ritrovarsi immersi nei tanti mondi che seppe creare. Perché la creatività è una forza che, come il magma vulcanico, spinge verso l’alto il pensiero proiettandolo verso l’infinito. Essa è talmente violenta e irruente che esplode fra le mani e lacera non la pelle ma l’anima. La creatività sfugge ogni classificazione o tentativo di incasellarla in una o altra corrente, con buona pace dei critici che, non comprendendola, la inaridiscono giudicandola. Un fiume trova sempre la strada verso il mare, che scorra sotto terra o alla luce del sole; come l’acqua, il pensiero libero e sfavillante non si ferma davanti a nessun ostacolo, ma frantuma le barriere del tempo e si consegna all’eterno, incolmabile ricchezza d’ogni uomo.
Entrando negli infiniti corridoi del suo intimo, si riesce a immaginare Steinbeck che crea seguendo soprattutto l’istinto, trovando soluzioni, pescando dai volti e dagli animi che lo circondano, costruendo la geografia dei luoghi chiudendo semplicemente gli occhi perché le linee, i colori e i profumi gli marcano il cuore.
È sempre una domanda assurda chiedere a uno scrittore come ha avuto un’intuizione, perché lo ha aiutato la pulsione inarrestabile della creazione e anch’egli non se lo è mai chiesto, ma ha semplicemente ubbidito a un istinto. Un’idea che brilla per originalità è un mistero della mente, prima nasce poi si pensa, non il contrario.
A proposito della creatività, così scriveva Steinbeck nel suo “La valle dell’Eden”: “La nostra specie è la sola specie creativa, e ha un solo strumento creativo, la mente e lo spirito individuale dell’uomo. Niente è mai stato creato da due uomini. (…) Una volta che abbia avuto luogo il miracolo della creazione, il gruppo può edificare ed estendere, ma il gruppo non inventa mai nulla. La cosa preziosa giace nello spirito individuale dell’uomo”.
Dopo il successo mondiale de “La valle dell’Eden”, nel 1954 Steinbeck pubblicò “Quel fantastico giovedì” (Sweet Thursday) che riprende i personaggi e le storie di “Vicolo Cannery”, un romanzo delizioso e venato di malinconia, tipico dell’arte di Steinbeck e che ispirerà l’anno seguente la commedia “Pipe Dream”.
Tre anni più tardi, nel 1957, uscirà “Il breve regno di Pipino IV” (The short reign of Pippin IV), un romanzo umoristico, un gioco fantastico dove monarchici e repubblicani ruotano intorno al loro stesso ego in una girandola ingegnosa ma che possiede poco vigore, con personaggi gai ma di basso spessore, forse perché Steinbeck è lontano dalla sua geografia.
Nel 1961 fu pubblicato l’ultimo suo romanzo, “L’inverno del nostro scontento” (The Winter of our Discontent), il titolo è una citazione dal Riccardo III di W. Skakespeare: “Ora è l’inverno del nostro scontento / Fatto estate radiosa da questo sole di York”.
Nel libro, Steinbeck affronta la lotta che tormenta l’anima di Ethan Hawley, discendente dei puritani che per primi, nel 1620, si stabilirono nella Nuova Inghilterra, e di agiati armatori, uomo colto ma povero, costretto a fare il commesso in una drogheria di Marullo, un italiano arricchito cattolico e terrone.
Ethan vorrebbe il prestigio, la ricchezza e il successo, spinto anche dalla sua famiglia che aspira a conquistare le alte sfere della buona società, ma per farlo dovrebbe smontare quell’integrità morale faticosamente acquisita attraverso la dura lotta dei suoi antenati che ancora vivono non solo nella sua memoria ma anche fra le strade della città.
“La nostra città di Baytown è una bella città, una città antica, una delle prime fra le città ben nette e definite d’America. I suoi primi abitanti, e miei antenati, credo fossero figli di quei marinai irrequieti, sleali, litigiosi, avidi, che diedero tanti grattacapi all’Europa al tempo di Elisabetta, s’impadronirono delle Indie Occidentali al tempo di Cromwell e finalmente si stabilirono sulla costa settentrionale con la patente di Carlo Stuart. Riuscirono a fondere puritanesimo e pirateria, che non sono poi così dissimili, a ben guardare”.
I primi capitoli conservano una forza e una lucentezza che via via si spengono rendendo il romanzo buio e confuso. L’anima nera di Ethan è solo grigia e triste, la forza di Shakespeare, richiamato dal titolo, scava un abisso invalicabile fra i due autori.
Quando nel 1962 gli fu assegnato il Premio Nobel, Steinbeck lo scoprì per caso mentre ascoltava un notiziario in tv nella sua casa a New York. La motivazione ufficiale fu: “… per le sue opere realistiche e immaginative, che uniscono sensibilità e una profonda percezione sociale”.
Alla notizia dell’assegnazione del Nobel, i commenti dei critici furono diversi e spesso caustici. Il Nobel suonava come l’estremo rintocco di una campana a morto, come se, una volta consacrato, Steinbeck dovesse farsi da parte per sempre.
Da parte sua Steinbeck, negli anni che lo separavano dalla morte, viaggiò ancora moltissimo, da solo, con l’amato barboncino Charley, che pareva ascoltare attento i suoi monologhi mentre attraversavano gli Stati Uniti a bordo di una specie di auto–roulotte detta Ronzinante, o con gli adorati figli Tom e John IV.
Dal viaggio, che effettuò al principio dell’autunno del 1960 con l’adorato cagnolino francese, nacque un libro, “Viaggio con Charley” (Travels with Charley), pubblicato nel 1962, una sorta di diario dove le sue riflessioni paiono essere ascoltate e ben comprese dal vecchio e malato barboncino.
Come lo stesso Steinbeck confessa all’inizio del libro, il suo desiderio di viaggiare, conoscere luoghi diversi e incontrare persone nuove continuava ad essere inguaribile. “Vagabondo ero, vagabondo resto. Temo che la malattia sia incurabile”.
Alla voglia di avventura si aggiunge anche la necessità di conoscere meglio il suo paese “… conoscevo i mutamenti solo dai libri e dai giornali. Ma peggio ancora, da venticinque anni non toccavo il paese. In breve, io stavo scrivendo di qualcosa che non conoscevo, e a me sembra che questo, in un sedicente scrittore, sia criminale”.
Attraverso le parole di Steinbeck scorre davanti ai nostri occhi un’America ancora rurale che lentamente si andava uniformando nella lingua e nei costumi. I grandiosi paesaggi aspri e inabitati si contrappongono alle città che si sviluppano a vista d’occhio e dove Steinbeck immancabilmente si perde. Le persone incontrate, ora aperte e schiette ora chiuse e sospettose, non riconosceranno mai il famoso scrittore le cui fotografie tante volte erano state esposte: “Credo che la gente identifichi le cose solo nel loro contesto”.
A fine 1960, trovatosi in una New Orleans infiammata dall’odio razziale, Steinbeck assiste all’esibizione delle Cheerleaders, un gruppetto di donne bianche che, supportate da una folla esaltata, contestano con pesanti insulti l’ammissione di due bambini di colore a una scuola per bianchi. Lo spettacolo disgusta Steinbeck che fugge inorridito dalla città.
Poche pagine separano queste ultime registrazioni dalla fine del libro. Dopo il lungo vagabondare attraverso trentaquattro stati durato alcune settimane, Steinbeck è sfinito e desidera solo ritornare a casa. Senza più percepire nulla, tanto il suo sentire è saturo, lo scrittore punta diritto verso New York, colto da una profonda e inarrestabile nostalgia di rivedere la sua famiglia.
Ma neppure quel lungo viaggio bastò a sopirgli definitivamente la curiosità di scoprire o rivedere paesi stranieri e infatti, appena poté, tornò in Europa, ancora in Irlanda, Grecia, Italia, Polonia, Cecoslovacchia, visitò la Russia e il Sud-Est asiatico da dove scrisse numerosi reportage.
Si tenne in contatto con gli scrittori d’oltre cortina, ma anche con personalità come John F. Kennedy e Lyndon Johnson.
Colpito da infarto, morì poco prima di Natale, il 20 dicembre 1968, a New York. Le sue ceneri sono sepolte al Garden of Memories Cemetery della sua Salinas in California.

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Fra le migliaia di parole che John Steinbeck scrisse, colpiscono, come una fulgida dichiarazione d’amore e di profonda amicizia, quelle dedicate all’amico e editore Pascal Covici, proprio sul frontespizio del romanzo “East of Eden ”, edito nel 1952.
Una breve dedica che potrebbe abbracciare tutti coloro che hanno amato e letto John Steinbeck, una dedica che la luce obliqua del tramonto non potrà mai sfiorare.
Sono poche frasi pregne di mille significati e che contengono il senso della vita per Steinbeck. Sentimenti nobili o perversi, passioni immense o infime, pensieri alti o rancorosi gettati alla rinfusa in una scatola che si muta in un contenitore simbolico.
Steinbeck non dimentica di riporvi la gioia di creare, quasi una necessità, che da sempre lo accompagna.
In cima a tutto questo, c’è ancora posto per il sentimento eletto, l’amore e un suo consanguineo, la gratitudine.
Può essere allora colma una simile scatola magica? No, soprattutto perché l’amore cela in sé il segreto di sapersi moltiplicare all’infinito senza occupare troppo spazio e continuando a conservare la sua incredibile forza benefattrice.
Ed ecco le parole di John Steinbeck, nella limpida traduzione di Giulio De Angelis:

 

A Pascal Covici

Caro Pat,
mi hai pescato a intagliare nel legno una specie di statuina e mi hai detto: “Perché non fai qualcosa anche per me?”.
Ti ho chiesto cosa volevi e hai risposto: “Una scatola”.
“Per farne che?”
“Per metterci la roba dentro”
“Che roba?”
“Tutto quello che capita” hai detto.
Ecco, questa è la scatola. C’è dentro quasi tutto quello che ho, eppure non è piena. Ci sono dentro dolore ed eccitazione, sentimenti buoni o cattivi, pensieri cattivi e pensieri buoni – il piacere di disegnare e un po’ di disperazione e l’indescrivibile gioia della creazione.
E oltre a tutto questo, in cima, tutta la gratitudine e l’amore che ho per te.
E la scatola non è ancora piena.

John


Biografia di John Steinbeck

John Steinbeck nasce a Salinas, in California, il 27 febbraio 1902. Suo padre, Ernst Steinbeck di chiare origini tedesche, è il tesoriere della contea di Monterey; sua madre, Olive Hamilton, è un’insegnante figlia di emigrati irlandesi. John ha tre sorelle: Esther, nata nel 1892, Elizabeth, nata nel 1894 e Mary, la più giovane, nata due anni dopo lo scrittore, nel 1904.
Nel 1919 si diploma alla “Salinas High School” e l’anno successivo si iscrive all’Università di Stanford.
Fra il 1924 e il 1926 pubblica tre poemi satirici e diverse novelle sulle riviste “The Stanford Spectator” e “The Stanford Lit”.
Nel 1925 abbandona l’università senza mai aver dato un esame; successivamente si reca a New York e collabora con il giornale “American”; ma dopo qualche mese, privo di lavoro e di soldi, rientra a Salinas.
Nel 1929 pubblica “La Santa Rossa” (Cup of Gold) che riscuote blandi consensi.
Nel 1930 si sposa con Carol Henning e la coppia si trasferisce a Pacific Grove. A causa della loro situazione finanziaria tutt’altro che florida, i genitori di Steinbeck li sostengono economicamente.
Nel 1932 dà alle stampe “I Pascoli del Cielo” (The Pastures of Heaven); nel 1933 esce “Al Dio sconosciuto” (To a God Unknown) e sulle pagine della “North American Review” il “Cavallino rosso” (Red Pony).
Nel 1934 muore la madre di Steinbeck e l’anno successivo muore anche il padre.
Nel 1935 esce “Pian della Tortilla” (Tortilla Flat) che ha un discreto successo ed è premiato con la medaglia d’oro del “Commonwealth Club of California”.
Lo stesso premio lo vince l’anno successivo con “La battaglia” (In Dubious Battle). Sempre nel 1936 pubblica “The Harvest Gypsies” sulle pagine del “San Francisco News”.
Nel 1937 esce “Uomini e topi” (Of Mice and Men), un lungo racconto che vince il premio del “Drama Critics’ Circle”.
Nel 1939 pubblica “Furore” (The Grapes of Wrath) che vince il Premio Pulitzer.
Nel 1940, insieme al grande amico Ed Ricketts visita il golfo di California; nel 1941 ne trae un libro “Mare di Cortez” (Sea of Cortez). Nello stesso anno escono due film tratti dai romanzi “Uomini e topi” e “Furore”.
Nel 1942 pubblica il romanzo “Sganciate le bombe” (Bombs Away) e il dramma “La luna è tramontata” (The Moon is down). Nello stesso anno divorzia da Carol Henning.
Nel 1943 si risposa con la cantante Gwendolyn Conger dalla quale ha due figli: Thomas (1944) e John IV (1946 – 1991). Sempre nel 1943, si reca in Europa per conto del “New York Herald Tribune”.
Nel 1945 esce “Vicolo Cannery” (Cannery Row) e, nel 1947, “La perla” (The Pearl) da cui è tratto un film; nello stesso anno pubblica anche “La corriera stravagante” (The Wayward Bus). Sempre nel 1947 visita la Russia e nel 1948 pubblica, con Robert Capa, “Diario russo” (A Russian Journal).
Nel 1948 divorzia dalla seconda moglie, e subisce la grave perdita dell’amico Ed Ricketts che muore in seguito a un incidente automobilistico.
Nel 1949 esce il film “The red pony” e nel 1950 “Viva Zapata”; sempre nel 1950 si sposa, per la terza e ultima volta, con l’attrice Elaine Anderson Scott.
Nel 1952 pubblica un altro grande successo editoriale “La Valle dell’Eden” (East of Eden); il romanzo “Quel fantastico giovedì” (Sweet Thursday) vede la luce due anni più tardi, nel 1954.
Nel 1955 esce il film di Elia Kazan ispirato al romanzo “La Valle dell’Eden”, è un successo mondiale che lancia l’appena ventitreenne James Dean nel mondo delle star internazionali.
Nel 1955 va in scena la commedia musicale “Pipe Dream” di Richard Rodgers e Oscar Hammerstein ispirata a “Quel fantastico giovedì”.
Nel 1957 esce il romanzo umoristico “Il breve regno di Pipino IV” (The Short Reign of Pippin IV); l’anno seguente “Una volta c’era la guerra” (Once there was e war).
Nel 1961 esce il suo ultimo romanzo “L’inverno del nostro scontento” (The Winter of our Discount).
Nel 1962 John Steinbeck riceve il Premio Nobel. Sempre nel 1962 pubblica “Viaggio con Charley” (Travels with Charley), una sorta di diario, dove raccoglie le sue riflessioni nate nelle settimane trascorse in un lungo e solitario viaggio compiuto nel 1960 attraverso l’America a bordo di un’auto- roulotte, detta Ronzinante, con l’adorato barboncino Charley, un compagno di viaggio ideale, sempre disposto ad ascoltare il suo celebre padrone.
Dal 1962 in poi, Steinbeck viaggia moltissimo, da solo o in compagnia dei suoi figli. Attraversa gli Stati Uniti, si reca in Europa visitando l’Irlanda, la Grecia, l’Italia, la Polonia, la Cecoslovacchia; ritorna in Russia e poi, convinto sostenitore della guerra contro il Vietnam, all’inizio del 1967, raggiunge i soldati americani impegnati nel conflitto e invia in America diversi reportage.
Poco prima del Natale del 1968, il 20 dicembre, muore nella sua casa di New York colpito da infarto.
Le sue ceneri sono sepolte al Garden of Memories Cemetery di Salinas, California.

Bibliografia essenziale

“La Santa Rossa” (Cup of Gold), trad. di Giorgio Monicelli, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 1951.

“La luna è tramontata” (The Moon is Down), trad. di Giorgio Monicelli, trad. di Giorgio Monicelli, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 1953.

“Quel fantastico giovedì” (Sweet Thursday), trad. di Giulio De Angelis, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 1955.

“La corriera stravagante” (The Wayward Bus), trad. di Anna e Nora Messina, Valentino Bompiani, Milano 1955.

“Il breve regno di Pipino IV” (The Short Reign of Pippin IV), trad. di Giulio De Angelis, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 1958.

“La conquista del Far West (1830 – 1860)” (The Far Western Frontier, 1830 – 1860), trad. di Renato De Paolis, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 1958.

“Vicolo Cannery” (Cannery Row), trad. di Aldo Camerino, Valentino Bompiani, Milano1960.

“L’inverno del nostro scontento” (The Winter of our Discontent), trad. di Luciano Bianciardi, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 1961.

“La perla” (The Pearl), trad. di Bruno Maffi, Valentino Bompiani, Milano 1963.

“La battaglia” (In Dubious Battle), trad. di Eugenio Montale, Valentino Bompiani, Milano 1963.

“Al Dio sconosciuto” (To a God Unknown), trad. di Eugenio Montale, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 1964.

“I pascoli del cielo” (The Pastures of Heaven), trad. di Elio Vittorini, Milano 1940; “Uomini e Topi” (Of Mice and Men), trad. di Cesare Pavese, Milano 1938; “Furore” (The Grapes of Wrath), trad. di Carlo Coardi, Milano 1940; edizione speciale del “Club degli Editori”, (scrittori nel mondo: i Nobel), 1964, su licenza della Arnoldo Mondadori Editore 1940 e della Casa Editrice Valentino Bompiani 1938 e 1940.

“John Steinbeck” di Patrick Rafroidi, trad. di Giuseppe Bendiscioli, Borla Editore, Torino 1965.

“La valle dell’Eden” (East of Eden), traduzione di Giulio De Angelis, Oscar Mondadori, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 1971.

“Viaggio con Charley” (Travels with Charley), traduzione di Luciano Bianciardi, BUR, Rizzoli Editore, Milano 1981.

 
   
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